La discesa

   Lorenzo iniziò ad aiutare lo zio Fausto in bottega appena qualche settimana dopo essersi trasferito in paese. Il lavoro manuale lo aiutava a fermare il tempo e a svuotare la mente da tutti i brutti pensieri che la notte non lo facevano dormire sereno; nonostante la guerra fosse finita da qualche anno, infatti, Lorenzo ne portava ancora i segni ben impressi nell’animo.

   I bombardamenti che nel 1943 avevano colpito Cagliari avevano distrutto la sua casa e si erano portati via la madre e la sorellina; suo padre, una volta congedato dall’esercito, non aveva tardato a risposarsi con una vedova di guerra, ma, per quanto si sforzasse, Lorenzo non riusciva ad abituarsi a quella nuova famiglia, in cui si sentiva un intruso.

   In un pomeriggio d’inizio estate, mentre passeggiava insieme al padre vicino all’antica necropoli di Tuvixeddu, dove aveva vissuto per qualche tempo insieme ad altre persone scampate ai bombardamenti, Lorenzo aveva chiesto il permesso di trasferirsi nel piccolo paese di montagna di cui era originaria la famiglia di sua madre; aveva già scritto alla zia Bianca per sapere se lo avrebbe accolto e, sebbene fosse andato in collera per quell’iniziativa, suo padre acconsentì, a patto che Lorenzo promettesse di tornare a Cagliari per sostenere l’esame della licenza media e  per continuare gli studi.

   Lui promise. E immediatamente partì alla ricerca del rifugio di cui aveva bisogno, un luogo in cui forse avrebbe potuto riallacciare i fili dell’amore che provava per sua madre, spezzati in una manciata di minuti di cui ricordava poco o niente: chissà perché si trovava in uno dei balconi, intento a raccogliere delle foglioline di salvia tra i vasetti delle erbe aromatiche, poi un boato fragoroso lo aveva investito e si era ritrovato in mezzo alla strada, ancora aggrappato alla ringhiera in ferro battuto. Il fumo aveva inghiottito ogni cosa, le urla erano lontane, ovattate, mentre i polmoni erano schiacciati da un peso insopportabile. Dopo era arrivato il buio e, quando Lorenzo aveva riaperto gli occhi, sua madre e sua sorella erano scomparse insieme al mondo che aveva sempre conosciuto.

   La vita nel paesino di montagna era molto diversa da quella della città.

   All’inizio fu strano ritrovarsi a trascorre l’estate in un luogo dove non c’era il mare; il centro abitato, arroccato sul fianco di una cima scoscesa, era un intrico di viuzze ripide e scale scolpite nella pietra, che quasi parevano emergere dal fitto della vegetazione circostante. Lorenzo imparò a gestire il tempo secondo i ritmi della montagna e dei boschi, di cui sapeva poco o niente, e si tuffò in un mondo silenzioso e crepitante, in cui il sole poteva accedere solo a patto di farsi spazio tra le fronde.

   La zia Bianca, che abitava col marito Fausto e le gemelline di due anni nella casa di famiglia, lo accolse con grande affetto; qualche volta, all’improvviso, si fermava a fissarlo e gli ripeteva quanto il suo volto, e gli occhi in particolare, le ricordassero la sorella defunta.

   In quei momenti Lorenzo provava una strana sensazione: quando era capitato che qualcuno dei suoi conoscenti in città gli avesse parlato di sua madre, aveva provato un disagio doloroso, che invece lassù, tra i boschi di castagno e nocciolo, pareva trasformarsi in una carezza, una di quelle lievi che i genitori fanno quasi di sfuggita, mentre sono presi da mille altre incombenze.

   Lo zio Fausto era un falegname esperto, specializzato nella costruzione e nell’intarsio delle tipiche cassapanche che si producevano in Barbagia; le ferite riportate in guerra lo avevano reso un po’ lento e impacciato nel lavoro, perciò quando scoprì che il nipote si dilettava a lavorare il legno fu molto felice di accoglierlo per qualche ora al giorno nella sua bottega.    

   Lorenzo infatti era nato in un quartiere di Cagliari, Villanova, che pullulava di botteghe artigiane; vicino alla casa in cui aveva abitato fino ai bombardamenti c’era l’attività del signor Desogus, che creava dei meravigliosi giocattoli in legno e lo lasciava scorrazzare tra i banchi da lavoro, così aveva imparato a modellare, levigare e intarsiare piccoli soggetti, come le criniere dei cavallini a dondolo o i capelli dei burattini.

   Quell’abilità, insieme al sollievo che gli donava praticarla, era l’unico bagaglio che Lorenzo aveva portato con sé da Cagliari, o almeno così aveva creduto fino all’arrivo dell’autunno.

   Le giornate si fecero più brevi e lui conobbe l’asprezza delle montagne, che spesso celavano oltre una cortina di nebbia densa e umida le strade e le case; vide il bosco vestire colori caldi, quasi provasse a ripararsi dal freddo sempre più pungente. La zia Bianca cominciò a prenderlo in giro bonariamente, quando lo vedeva accoccolarsi davanti al caminetto in preda ai brividi: in dicembre sarebbe arrivata la neve e allora si che avrebbe provato il vero gelo, quello che attanagliava le ossa e spezzava il fiato.

   Tutto sommato Lorenzo avrebbe preferito che sul paese e sulle cime circostanti si stendesse immediatamente un candido mantello di fiocchi gelati, piuttosto che assistere a quella lenta trasformazione, per cui le foglie secche, bagnate da pioggia sottile e incessante, divenivano una poltiglia di marciume scivoloso sotto i piedi. Quello stato della natura, che gli pareva così incerto e instabile, riportò a galla il senso di inadeguatezza che pensava di aver lasciato a Cagliari, nella casa che suo padre aveva scelto per la nuova famiglia a cui sentiva di non appartenere; provò a tenersi occupato con lo studio, perché non voleva mancare alla promessa fatta riguardo la licenza media, ma l’unica attività che gli dava conforto era il lavoro nella bottega dello zio, dove prese a trascorrere le lunghe serate autunnali.

      Arrivò così il 31 ottobre, la vigilia di Ognissanti, il giorno che la zia Bianca, così come sua madre, chiamava “su mortu mortu”; era una ricorrenza particolarmente sentita in paese, durante la quale le famiglie erano solite preparare le pietanze preferite dai loro cari defunti e i bambini bussavano alle porte delle case con il volto sporcato dal nero del carbone, chiedendo un dono per le anime del Purgatorio.       

   Quella sera la zia avrebbe preparato una cena speciale, così si raccomandò più e più volte che Fausto e Lorenzo tornassero puntuali dalla bottega; sfortunatamente l’ordine di una cassapanca, che avrebbe contenuto il corredo di una sposa del continente, li trattenne entrambi più del dovuto per via di un intarsio floreale particolarmente elaborato.

   L’ora del pasto era già passata da un pezzo quando suo zio lo congedò dal lavoro, raccomandandogli di correre a casa e avvertire che avrebbe tardato ancora un poco; Lorenzo uscì dalla bottega a malincuore e dopo pochi, incerti passi sulla stradina di ciottoli, si ritrovò completamente avvolto dalla nebbia. Era compatta come un albume d’uovo ben montato.

   Mentre procedeva a tentoni, sperò di non mancare l’imbocco della scala di pietra che, dalla parte alta del paese, lo avrebbe condotto verso casa.

   L’aria era immobile, umida e pesante, il respiro più affannoso a ogni passo.

   Cominciò ad avere paura di perdersi. Cercò di mantenere la calma e prese a camminare con le braccia tese in avanti, tentando di muoversi verso sinistra perché sapeva che la discesa era da quella parte.

   Finalmente sfiorò con una mano la ringhiera della scala.

   Era coperta di goccioline gelate; la strinse e tirò un sospiro di sollievo, alzando gli occhi al cielo.

   In alto, sopra la testa, vide spuntare fuori dalla nebbia una croce di ferro.

   Ebbe un sussulto.

   Poi ricordò: la scala si trovava davanti all’arco di pietra che segnava l’ingresso al cimitero del paese e che era sormontato da una croce.

   Non aveva mai avuto paura a passare lì davanti al buio, tuttavia si ritrovò a scendere i gradini scivolosi con insolita rapidità, entrambe le mani serrate sulla ringhiera.

   Provò a ricordare quante rampe di scale doveva percorrere. Una, due… forse erano cinque e disegnavano un grande zig-zag sulla parete scoscesa.

   Fu costretto a rallentare, perché procedere senza vedere null’altro che la nebbia sotto di sé non era affatto facile. Gli sembrò, a un certo punto, di sentire qualcuno che scendeva accanto a lui, i passi rapidi, una risata lieve.

  E di avvertire un peso sul torace, come se l’aria fosse troppo solida per essere inspirata.

 Di vedere, nella nebbia, come delle volute di fumo, che si muovevano rapide, nell’immobilità circostante.

   Giù, ancora più giù. Stava precipitando e non riusciva più a tenere gli occhi aperti, né a respirare.   Ancora una volta il silenzio che gli comprimeva le orecchie fu rotto da una risata lontana.  Ancora una volta qualcuno gli era passato accanto.

   Poi quel profumo, intenso e goloso, gli solleticò le narici. Era qualcosa che conosceva molto bene, che gli ricordava casa.

  – Vuoi un’offerta per le anime? – chiese una voce.

   Aprì gli occhi, in preda al terrore, e si ritrovò sull’ultimo gradino della scala. La nebbia ora era impalpabile, leggera sui tetti delle case. Tra i vicoli, Lorenzo vide alcuni gruppi di ragazzini col volto dipinto di nero, che si divertivano a correre di casa in casa, confrontando il bottino di doni che custodivano nei cestini di giunchi intrecciati.

   Si sentì confuso, ma stranamente sollevato. Volse lo sguardo verso la cima della scala: la croce di ferro era lì, unica testimone di quanto, forse, gli era accaduto.

   Si affrettò a tornare a casa. La zia Bianca lo rimproverò per il ritardo e gli chiese se per caso non si fosse trattenuto con gli altri ragazzi del paese per su mortu mortu. Lorenzo ci pensò per un attimo, scosse la testa, ma rispose che dopotutto gli sarebbe piaciuto ricevere un dono in quella notte speciale.

  E allora ricordò ogni cosa.

  La mamma, che dalla cucina lo aveva mandato al piano di sopra, nella loro casa di Villanova dal tetto spiovente, per raccogliere le foglioline di salvia che le servivano per cucinare chissà quale pietanza.  E lui, lui che non era mai riuscito a portargliele, a scendere in quella stanza calda e accogliente che era il cuore della casa, dove la sua sorellina rideva beatamente imbrattando di pappa il pupazzo preferito.

   Ricordò la voce, che quella sera gli aveva chiesto se volesse un dono per le anime del Purgatorio: infilò la mano in una delle tasche del cappotto d’orbace e dentro, fresco come fosse stato appena reciso da una pianta, ci trovò un rametto di salvia, folto di foglioline giovani e vellutate che sparsero il loro aroma tutto intorno a lui.

   La zia Bianca spalancò gli occhi e gli chiese dove mai lo avesse colto, in quella stagione, ma lui si limitò a sorridere.

   Quella notte, quando finalmente lo zio Fausto fece ritorno dalla bottega, alcune foglie di salvia staccate dal rametto finirono nella zuppa di legumi e zucca che era stata preparata per cena. Era una ricetta di famiglia, tramandata da generazioni: mentre la assaporava, Lorenzo si sentì finalmente pronto per l’arrivo della neve e del futuro.

***

Per chi ha avuto la pazienza di leggere fino alla fine: il racconto si ispira a fatti reali, in parte vissuti da mio padre, in parte raccontati da una mia vecchia insegnante, che da bambina vide la sua casa sventrata dai bombardamenti del ’43, a Cagliari, e si salvò per miracolo.

La scala della foto si trova nel paese di Aritzo.

8 commenti Aggiungi il tuo

  1. wwayne ha detto:

    Il tuo racconto mi è piaciuto così tanto che gli ho fatto pubblicità nei commenti a questo post:

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    1. Lorella_Co ha detto:

      Ciao! Che dire, sono molto felice che il racconto ti sia piaciuto, davvero! E ti ringrazio tanto per la condivisione/segnalazione!

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      1. wwayne ha detto:

        Grazie a te per la risposta e per il follow (ricambiato)! 🙂

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      2. Lorella_Co ha detto:

        Ci mancherebbe, ti leggo con piacere 🙂

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  2. marisasalabelle ha detto:

    Ciao, sono venuta sul tuo blog su segnalazione dell’amico wwayne. Il tuo racconto mi è piaciuto molto. Sono anch’io sarda, sono di Cagliari, e in un mio romanzo (Gli ingranaggi dei ricordi, Arkadia) ho raccontato dei bombardamenti che colpirono Cagliari durante la guerra… anche la casa di mia nonna (e di mia madre) fu colpita da una bomba e la ringhiera del balcone entrò con violenza dentro la casa.

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    1. Lorella_Co ha detto:

      Ciao Marisa, innanzitutto grazie per la lettura. Nel blog provo a raccontare piccole storie ispirate dalla nostra bella Cagliari, da alcuni quartieri o magari da alcuni dei suoi abitanti. Il tentativo è quello di evocare in qualche modo la città e, talvolta, la sua assenza. Sarò lieta di leggere il tuo libro, anche perchè alcuni anni fa ho potuto collaborare con l’editore Arkadia, nella stesura dei testi del loro libro “Ti amo da (farti) morire”, un vademecum illustrato che fornisce numerose informazioni utili a prevenire e difendersi dalla violenza di genere. Sono contenta di aver scoperto il tuo blog, grazie ancora a wwayne! Spero ci si possa leggere ancora.

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      1. marisasalabelle ha detto:

        Il tuo è un blog molto carino, mi sa che verrò spesso a sbirciare!

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