Non avere il tempo di pensare.
Lo aveva desiderato spesso, negli ultimi tempi, e finalmente era accaduto.
Impegni di lavoro, scocciature di vario genere, incombenze, imprevisti. Arrivava a fine giornata così stanca da non avere nemmeno la forza di aprire quello stupido gioco al cellulare o di alimentare la sua ansia con tutto ciò che la preoccupava.
Aveva imparato molto bene, con l’età, a separare i vari settori della sua esistenza, in modo tale che uno non influenzasse l’altro: se avesse guardato alla vita nell’insieme, infatti, sarebbe stato impossibile viverla bene. C’erano dei pensieri così grigi e appiccicosi da invischiare con la loro soffocante presenza anche ciò che di buono le accadeva, così l’unico modo di andare avanti era erigere degli spessi, invalicabili muri, che lasciassero brillare del loro pieno fulgore il bello che c’era, ben riparato dalle brutture . Forse stava vivendo una tremenda menzogna, ma non avrebbe voluto avere il tempo di porsi la questione e, da qualche mese a quella parte, gli impegni che avevano affollato la sua agenda avevano esaudito quel desiderio.
Così, quella mattina, mentre raggiungeva il luogo di uno degli ennesimi appuntamenti di lavoro, si sentì impreparata alla lentezza con cui il bus procedeva lungo la via Roma. C’erano lavori infiniti, cantieri e tanto, tanto traffico che le diedero il tempo di pensare: era il primo, vero giorno d’autunno in città e il cielo grigio, l’aria fresca dopo la lunga estate incapace di arrendersi, le fecero sentire i pensieri.
Si sforzò di non dar loro peso, di concentrarsi sugli impegni che l’attendevano quel giorno, ma i pensieri la circondarono: la materia appiccicosa tracimò dai muri e lei, proprio davanti al bel palazzo del Municipio cittadino, si sentì soffocare. Tutto ciò che aveva ignorato, dietro quei muri, era diventato ancor più oscuro e minaccioso e ora non c’era modo di liberarsene.
Come si sarebbe salvata, quella volta?
Il respiro si fece rapido, cominciò a guardarsi intorno, come assediata da un nemico invisibile a tutti, tranne che a lei. Poi però, tra quei pensieri, quelli che aveva ripudiato e interdetto dalla sua vita nella speranza che sarebbe bastata l’illusione per farli scomparire, ne riconobbe uno, piccolo e tenace, fatto di una materia che possedeva la durezza di un diamante grezzo. Solcava le sue paure, si faceva strada tra dolore e disillusione. Riusciva perfino a infrangere le sue preoccupazioni, quelle più segrete.
Lo riconobbe, infine.
Era il coraggio. Il suo, ormai esausto, rafforzato da quello che lui sapeva darle. Con le sue parole, i suoi rimproveri, i suoi racconti, talvolta così simili a quelli che anche lei custodiva.
Quel coraggio, però, lo aveva relegato oltre le mura, nonostante fosse prezioso e emanasse un tepore che la rinvigoriva. Lo aveva immerso lì, nel marciume delle sue paure, per dimenticarlo e, soprattutto, per dimenticare quanto le piacesse indugiare nel calore che irradiava dal diamante. Perché forse, ciò che più di tutto temeva, era ammettere di aver bisogno di quel raro, sontuoso gioiello, di volerlo portare al collo ogni giorno, indipendentemente da come fosse abbigliata.
Quando il bus riprese la sua corsa, superando la via Roma e lanciandosi a tutta velocità verso il luogo del suo appuntamento, lei rinforzò gli argini delle dighe, eresse rapida nuovi muri e pian piano ogni pezzo della sua vita riprese il posto che lei gli aveva assegnato.
Giocherellò con il diamante per qualche istante, prima di decidere cosa farne.
Mentre il gioiello spariva tra le acque oscure e vischiose dei pensieri, fu grata della sua esistenza: sapere che il diamante fosse ancora lì, insieme a lui, le sarebbe stato di consolazione, sempre.
Scese dal bus e fu percorsa da un brivido di freddo.
Che fosse davvero colpa dell’autunno?

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