Non avrebbe mai pensato di varcare quella soglia ancora una volta, in vita sua.
La faccenda, invece, le si era prospettata all’improvviso e si era concretizzata nel giro di pochi giorni, senza darle il tempo di pensare troppo al significato emotivo di quel ritorno.
Non aveva abitato lì a lungo, poco più di tre anni, in cui però era stata una bambina felice. O meglio, la bambina “nella bolla”, ben protetta dalle amare consapevolezze degli adulti.
Mentre era in viaggio, si preparò al fatto che probabilmente la casa non corrispondeva più al ricordo che ne custodiva: tanti proprietari diversi si erano avvicendati tra le sue mura e infinite questioni legali avevano imbrattato la proprietà di rancori e ripicche familiari in cui ora si trovava invischiata anche lei. Con quei fatti, così concreti, si preparò una corazza: bando ai sentimentalismi, si disse scendendo dalla macchina.
Gli anni non avevano cambiato i tratti salienti del paesaggio, che prese forma tutto intorno come animandosi da un’illustrazione, mentre percorreva la stradina disconnessa del paese. Le case di quelli che erano stati i suoi amici d’infanzia giacevano quietamente ai lati della via, ma nessun volto familiare si affacciò dalle finestre: tutto sembrava poggiato lì come in un set cinematografico in pausa, in attesa di riempirsi di attori. Così, del resto, accadeva nei piccoli centri, dove la vita scorreva imperterrita all’interno delle abitazioni e quasi mai brulicava per le strade, come si vedeva in città: non avrebbe potuto sopportare, da adulta, quell’esistenza appartata, ma si stupì nel constatare quanto gli accadimenti di quegli anni lenti, ora, le apparissero densi di significato.
Infine, la vide: una villetta a tre piani si stagliava sulle siepi di rose ischeletrite dall’inverno incombente, ancora graziosa, ancorchè ammaccata senza pietà dal tempo. Molte persone, non appena si fu avvicinata abbastanza da essere vista, le si fecero incontro: agenti immobiliari e parenti, inquilini sospettosi e periti, e lei rispose a tutti, con pazienza.
Nessuno, però, fece caso alla bambina nella bolla, che era apparsa all’improvviso facendo un gran baccano: quanto era felice di trovarsi lì! Non le importava di tutta quella gente, faceva avanti e indietro dal cortile al salotto, poi su e giù per la scala esterna di granito rosa e, ancora, dritta a curiosare nella vecchia rimessa, dove un tempo si custodivano frutta e conserve. Non vedeva le brutture, non vedeva l’incuria, non vedeva l’irrispettoso trattamento riservato in quegli anni alla sua casa, sua, più di quanto appartenesse a chi l’aveva costruita: era felice di essere lì, la sciocca bambina, e tanto le bastava.
Si divertiva a individuare le crepe nella pavimentazione del giardino, dove aveva imparato ad andare in bicicletta senza rotelle, e si attardava nella grande cucina in cui aveva riempito di pensierini le pagine dei quaderni di scuola e aveva visto la sua sorellina muovere i primi passi; ancora, si soffermava nell’angolino dell’ingresso in cui di solito veniva sistemato l’albero di Natale: imperterrita, sedeva lì davanti per ore, a inventare le storie degli strani personaggi che abitavano l’abete.
La bambina la accompagnò per tutto il tempo: dove lei vedeva lo sfacelo, la piccola sistemava il caminetto davanti al quale si beava a scaldare le suole in caucciù delle pantofole fin quasi a scioglierle; se il suo cuore si stringeva per il vuoto di una stanza, la bambina subito lo riempiva con un grande mobile, sopra il quale, insieme a sua sorella maggiore, poggiava le assurde architetture delle case costruite con i Lego. Avrebbe potuto trattenere la bambina dal risvegliare quei momenti: stranamente, però, mentre il presente le pareva grigio e impolverato, il passato in cui la piccola trotterellava allegra era tinteggiato di colori vivaci. E allora, perché avrebbe dovuto fermarla? Mentre scambiava qualche vuota parola con una preparatissima agente immobiliare che le prospettava i passi futuri da compiere, le fu chiaro il motivo: semplicemente, impedire alla pestifera bambina di uscire e visitare la casa sarebbe stato più facile che lasciarla libera di scorrazzare. Avrebbe dovuto farci i conti, con tutta quella felicità insensata, forse già durante il viaggio di ritorno in macchina, quando quei pochi anni vissuti lì si sarebbero presi una definitiva rivincita sul presente.
Mentre la visita volgeva al termine e le porte di quella dimora ferita si chiudevano alle sue spalle, si voltò a guardarla per l’ultima volta; la bambina era ancora lì, in giardino, ed era esausta per aver trascorso il pomeriggio ad esercitarsi con la bicicletta: sua madre le si era fatta accanto, per chiederle cosa volesse sbocconcellare per merenda.
Si voltò subito e mosse qualche passo per allontanarsi; forse, al ricordo di quella vita, le lacrime le avrebbero rigato il viso, se non fosse stato per la bambina nella bolla, che immediatamente le fu accanto: la guardò e vide che scuoteva la testa, facendo ondeggiare l’odiata frangetta.
Lei non abitava nella casa, dopotutto. Avrebbe dovuto saperlo.
Salirono in macchina; il viaggio di ritorno fu riscaldato da un inatteso tepore.
In basso: Christian Wilhelm Allers (1857 – 1915), Ritratto di Serena Contini seduta su una roccia.

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