Fino a quel primo giorno d’autunno Samuele non avrebbe saputo spiegare cosa rendesse il Parco della Musica tanto speciale.
Per lo più si trattava di un grande giardino, incastonato tra il Teatro Lirico, alcune strade molto trafficate e l’hotel dall’aspetto più futuristico della città: una matita gigantesca con la punta stagliata verso il cielo, che all’imbrunire si trasformava in un razzo spaziale sfavillante di luci, visibile da quasi ogni punto della metropoli.
Ben presto il laghetto del Parco, circondato dalle palme, si era trasformato nella personale oasi artificiale di Samuele; ci si rifugiava durante la pausa pranzo e lì riusciva a non arrovellarsi su quanto odiasse la routine dell’ufficio o sull’apparente facilità con cui si stava abituando a non maneggiare più la macchina da presa e a non avere una relazione con Rebecca.
Samuele si toglieva giacca e cravatta, arrotolava le maniche della camicia e trascorreva quel tempo in compagnia delle anatre, dei gabbiani e dei gatti della colonia felina che abitavano tra i cespugli di pitosforo. Non provava rabbia, né tristezza. Semplicemente non sentiva niente.
In un’afosa giornata di inizio estate, col sole velato da un cielo appiccicoso color sabbia, Samuele si prese la briga di ritornare al Parco anche dopo il lavoro, perché di mattina aveva visto Bette Davis, gatta piuttosto altera che inspiegabilmente adorava, zoppicare mentre gli correva incontro, beninteso solo per verificare la natura del suo pranzo. Era grigia, aveva le zampe paffute e due giganteschi occhi verdi… ma soprattutto era una vera regina nell’applicare il concetto “in amor vince chi fugge”, perché concedeva una carezza, al massimo una strusciatina, per poi allontanarsi elegantemente con una miagolata roca da vera diva.
Samuele si disse che, se l’avesse vista zoppicare ancora, avrebbe avvertito il custode, ma non appena varcò i cancelli del Parco, rimase colpito dalla quantità di persone che occupava i vialetti di legno, scricchiolanti a ogni passo, le panchine, perfino quelle decorate dagli slanci “Pollockiani” degli uccelli, e le piazzole lastricate di marmo. C’erano bambini di etnie diverse che giocavano insieme a pallone o si rincorrevano con bici e monopattini, ragazze e ragazzi sdraiati sul prato, che leggevano libri o si baciavano, e poi, in una spiazzo libero a ridosso dell’ingresso est, un gruppo di signore e signori che ballavano in cerchio, stringendosi le mani, accompagnati da una melodia che sembrava venire da un’epoca lontanissima: il giovanotto alto e magro che li guidava disegnava passi rapidissimi con i piedi, ma teneva immobile la parte superiore del corpo in maniera piuttosto inquietante.
Samuele quasi non riconobbe il suo Parco e, in fondo, si sentì un po’ geloso di quegli spazi che per lui esistevano solo vuoti o quasi; si mise alla ricerca di Bette Davis, ma immaginò che i gatti, con tutte quelle persone chiassose in giro, fossero nascosti; proprio quando stava per perdere le speranze di incontrarla, però, la vide appollaiata sul ciglio di una grande aiuola colma di campanule multicolore, circondata da una recinzione. Era impossibile avvicinarsi, così Samuele provò a chiamarla, nella speranza che la gatta si alzasse e muovesse almeno qualche passo verso di lui. Bette Davis si limitò a girare la testa, guardarlo da due fessure color smeraldo e produrre un miagolio annoiato davvero molto sensuale.
Fu allora che la signora seduta nella panchina poco lontano rise, si alzò, aiutandosi con un bastone bianco, e si avvicinò a Samuele a passo lento.
-Lei è fatta così! Ritieniti fortunato, in fondo non ti ha ignorato del tutto-; poi lo guardò dal basso, minuta com’era, dritto negli occhi: -Mi chiamo Milena… puoi chiamarmi Lena se vuoi- disse con un lieve accento dell’Europa dell’est.
Lui non riuscì a sostenere lo sguardo a lungo, ma si presentò e le porse la mano, che lei strinse lievemente facendola quasi sparire dentro la sua.
-Stamattina zoppicava e mi sono preoccupato- fece Samuele indicando Bette Davis.
-Sei un ragazzo premuroso… non darti pensiero, l’ho vista camminare poco fa e non zoppicava. Oh, a proposito, le hai dato un bellissimo nome!-.
Samuele arrossì: -Mi piacciono i vecchi film…- bofonchiò.
Lena tornò a sedersi sulla panchina, facendogli segno di seguirla.
-Vieni spesso al Parco?- chiese.
-Ogni giorno, all’ora di pranzo. Tranne la domenica… lavoro qui vicino-.
Così Samuele si ritrovò a raccontare, seduto accanto a quella piccola, sconosciuta signora così elegante nel suo vestito celeste. Gli studi di cinematografia lasciati a metà a Roma, il ritorno nell’isola, il lavoro nell’agenzia immobiliare di un amico, per aiutare la famiglia dopo la morte di suo padre, e le giornate tutte uguali, da qualche mese a quella parte, con un unico momento di pace quotidiano, nel Parco della Musica semi deserto.
-Ci devo solo fare l’abitudine- concluse, -Col tempo andrà meglio-.
Lena non disse niente. Lo guardava, gli occhi neri, profondi come pozzi di velluto, sembravano persi oltre le sue parole.
-Mi scusi, forse la sto annoiando… le sembrerà una storia come tante, la mia- mormorò un po’ imbarazzato.
-Perché sono anziana? E di storie ne ho sentite tante?- fece Lena in tono di rimprovero.
Samuele non ebbe il tempo di spiegarsi, che lei scoppiò a ridere.
-Scusami, non ho resistito! Mi diverte molto fingere di essere suscettibile riguardo la mia età. E comunque si, di storie come la tua ne ho sentite tante… e non ti dirò che si risolverà tutto. Che tornerai a studiare ciò che ami o che ti abituerai a questa vita e ti sentirai meglio-.
Stavolta Samuele la fissò negli occhi senza distogliere lo sguardo. Insomma, doveva a Lena rispetto per la sua anzianità, ma di certo non aveva nessun bisogno che una sconosciuta infierisse su di lui.
-Sai perché vengo al Parco?- chiese Lena senza dargli il tempo di parlare, -Per loro-.
Con dita magrissime e nodose, indicò due eleganti orchestrali vestiti di nero, che attraversavano il Parco a passo svelto, stringendo le custodie dei loro strumenti in mano, violino e tromba probabilmente. Dopo qualche istante ne arrivarono altri, tutti diretti verso il Teatro Lirico, la cui ombra, a quell’ora della sera, si allungava con grazia sul laghetto artificiale.
-Oggi c’è un concerto- sussurrò Lena sorridendo, -E tutto intorno ai musicisti, anche tra quelli più esperti, aleggia l’emozione della messa in scena, la tensione prima del grande balzo-.
Samuele attese qualche minuto prima di parlare.
-Lei suonava, vero?- chiese.
-Oh si. E lo faccio ancora, talvolta. Contrabbasso- annuì Lena, -Quando sono qui e li vedo correre verso il Teatro, sono una di loro, non c’è artrite che possa fermarmi!-.
Ci fu ancora qualche minuto di silenzio.
-Non osare essere triste per me!- esclamò lei all’improvviso, -Piuttosto… tu perché vieni qui, al Parco, ogni giorno?-.
-Ecco… per staccare dal lavoro, stare un po’ in pace…-.
-Mmmm… no, non credo sia per questo. È un piccolo parco di città, non troppo bello, oltretutto. Vedrai, con l’arrivo del caldo “vero”, come sarà puzzolente il tuo laghetto… e i pulli dei gabbiani? Preparati a dividere il pranzo con loro… o a lottare per il tuo pasto a costo della vita!-.
Samuele rise. Poi si strinse nelle spalle: a dirla tutta, non sapeva come rispondere alla domanda di Lena.
-Lo so io perché vieni qui. Questo è un crocevia e tu stai aspettando qualcosa o qualcuno-. Lena non aggiunse altro, si alzò e fece per andarsene: -Tornerai domani? So che preferiresti macerarti nella solitudine, ma magari ti sarà più utile fare quattro chiacchiere, non credi?-.
Samuele rispose che ci avrebbe provato. Non voleva impegnarsi, ma sapeva che avrebbe accettato l’invito.
Nelle settimane successive frequentò il Parco della Musica di sera, dopo il lavoro, e comprese cosa intendesse Lena quando parlava di “crocevia”. Imparò che c’erano delle zone in cui si parlava in ucraino, altre in filippino, altre ancora in una qualche varietà di cinese; c’erano le piazzole in cui bambini, oltre a giocare, si scambiavano favole e giochi antichi, provenienti da tanti paesi diversi; c’erano passioni ballerine e tradimenti brizzolati, che si consumavano in una stretta di mano, nel tempo di una danza. C’erano i musicisti del Teatro Lirico, gli ospiti dell’hotel dall’architettura spaziale, i giardinieri. Tutti attraversavano il Parco, per un motivo o per l’altro, e ci lasciavano dentro un pezzo del loro viaggio, prima di scegliere l’uscita che li avrebbe condotti a destinazione. E c’era Lena, a raccontare di sé e degli altri. Aveva vissuto un amore turbolento, quando ne parlava le si illuminava il viso, e aveva suonato nei teatri più prestigiosi del mondo, ma con la guerra nei Balcani il suo paese si era trasformato in un cumulo di macerie e lei si era dovuta costruire una nuova esistenza altrove.
L’ultima sera, poco dopo Ferragosto, Lena si scusò per essere stata brusca con Samuele, il giorno d’inizio estate in cui si erano conosciuti.
-Avevi bisogno di essere consolato, lo so. Sfortunatamente non è nella mia natura. Promettimi solo che non te ne starai qui ad aspettare per troppo tempo, va bene?-.
Da allora Samuele non la rivide più. All’inizio pensò che la sua artrite fosse peggiorata e sperò che nel giro di qualche giorno Lena sarebbe tornata; dopo una settimana iniziò a chiedere alle persone che frequentavano il Parco se avessero sue notizie, ma in pochi ricordavano di averla vista negli ultimi mesi.
Alla fine Samuele si arrese. Dopo il lavoro lo rattristava trascorrere del tempo al Parco senza Lena, così riprese a fare la sua pausa pranzo in solitudine, sulle sponde del laghetto artificiale. Al principio, rivedere così gli spazi che lei aveva riempito di storie, vuoti e silenziosi, fu quasi doloroso, tuttavia col passare dei giorni ripercorrere quei racconti, immaginare i giochi dei bambini o le danze d’amore lente e malinconiche cominciò a essere consolatorio.
Così Samuele prese a inventare nuovi personaggi con cui popolare il Parco e si divertì a immaginarne le vite, che inaspettatamente si intrecciavano l’una all’altra in quel grande giardino di città. Pian piano sentì tornare, prepotente, il desiderio di impugnare la macchina da presa, per mostrare agli altri le storie che dopo tanto tempo avevano ripreso ad affollare la sua testa. All’ombra delle palme, nella sua piccola oasi artificiale, Samuele poteva sentirle.
Ricominciò a scrivere e a tratteggiare sui taccuini dell’ufficio storyboard incomprensibili, mentre Bette Davis, stranamente, restava a tenergli compagnia, anche se i suoi pranzi continuavano ad essere decisamente poco appetibili per lei.
In quel primo giorno d’autunno, frustrato per l’ennesima storia promettente che gli era sfuggita tra le pagine, Samuele lanciò per aria il suo taccuino; nel compiere quel gesto rabbioso, sollevò lo sguardo oltre il laghetto, verso una delle passerelle in legno che attraversavano il Parco.
Vide una ragazza che trasportava a fatica la custodia di un contrabbasso. Indossava un elegante vestito celeste, leggero e impalpabile.
Si fermò, appoggiò lo strumento a una panchina e con il dorso della mano asciugò le goccioline di sudore che le imperlavano la fronte. I suoi occhi nerissimi incontrarono per una frazione di secondo quelli di Samuele.
Ecco perché il Parco della Musica era così speciale. C’era Lena, che lo attraversava con la sua storia ogni giorno. E con lei, tra la folla, chissà quanti altri.
Samuele non perse tempo. Raccolse il taccuino e, innanzitutto, raccontò di un grazioso vestito celeste.
Bette Davis, accanto a lui, sbadigliò e si sistemò comodamente per fare il suo consueto sonnellino pomeridiano.


