Castello (tempesta d’inizio estate)

Ieri Cagliari ha avuto la sua prima tempesta di fulmini estiva.

È cominciato tutto poco dopo le 9 di sera: ero ancora seduta al tavolo da lavoro e la stanza è stata percorsa da un bagliore. Mi sono girata verso Kiki, che sonnecchiava sul divano, e i nostri occhi si sono incontrati, le orecchie feline, ritte come antenne, erano in attesa del boato che sarebbe arrivato di lì a qualche secondo.

Da quel momento in poi è stato un lento, continuo susseguirsi di fulmini e tuoni, che mi ha riportata indietro nel tempo, a una notte di tanti anni fa.

La scuola era finita da qualche giorno e la mia felicità era mitigata dalla tristezza per aver dovuto salutare i compagni di classe e i maestri con cui avevo condiviso le elementari; già mi chiedevo come sarebbero state le medie, certa che ragazze e ragazzi più grandi non mi avrebbero considerata e  che i professori  sarebbero stati dei burberi incapaci di sorridere.

Era difficile tenere a freno l’immaginazione e, essendo questa  naturalmente dotata di uno spiccato afflato drammatico, non presi bene  la notizia che avrei trascorso  qualche settimana a casa della misteriosa e semi-sconosciuta nonna materna Ilda; i miei genitori infatti, entrambi archeologi, sarebbero partiti per uno scavo in  Tunisia e i nonni paterni,  da cui di solito mi trasferivo durante i viaggi di lavoro dei miei, erano nel bel mezzo di uno dei loro pellegrinaggi religiosi.

Non avevo ben capito il perché, ma mia madre e nonna Ilda non andavano molto d’accordo, perciò la incontravo soltanto per Natale o per il mio compleanno; era sempre elegantissima, la figura alta e slanciata si muoveva con grazia e, contrariamente alle altre nonne che conoscevo, portava i capelli lunghi e sciolti sulle spalle, pettinati in morbide onde bianche. Era gentile e mi regalava dei libri bellissimi, pieni di avventure, duelli e morti truculente, ma a parte questo non la conoscevo e non sapevo cosa aspettarmi da lei.

Abitava in un vecchio palazzo del quartiere Castello, nella piazza Carlo Alberto, su cui si affacciava la Cattedrale di Santa Maria; per quanto fossi già stata lì, anni prima, non ricordavo quanto la città alta fosse affascinante. La mattina in cui mia madre mi accompagnò lassù, dopo una lunga e tortuosa salita tra le viuzze che  si arrampicavano intorno al Bastione Saint Remy, trovai difficile mettere un piede davanti all’altro nei vicoli rivestiti di ciottoli, perché avevo la sensazione di addentrarmi in una delle storie di cappa e spada che nonna Ilda amava regalarmi; all’epoca la mia famiglia abitava in un nuovo quartiere che stava sorgendo alla periferia di Cagliari, moderno, funzionale, ma impietosamente brutto, soprattutto se confrontato con quel mondo da romanzo che mi si stava aprendo sotto gli occhi.

Mia madre si trattenne nell’ingresso giusto il tempo per fare qualche raccomandazione alla nonna, che la ascoltò annuendo; quando se ne fu andata, dopo avermi salutato con lo sguardo di chi si augura che fili tutto liscio, la nonna tirò come un sospiro di sollievo, incrociò le braccia sul petto e mi disse: -Sei libera di fare ciò che desideri. Non voglio  che tu trascorra le giornate a mio piacimento, perciò scegli senza remore. Sei in vacanza, no?

Mi guidò nel lungo corridoio che attraversava la casa: le porte, a sinistra e a destra, mi parvero un’infinità e mi ci volle qualche giorno per azzeccare al primo colpo quella che  conduceva alla mia camera, o meglio,  alla stanza che era stata di mia madre fino a quando aveva abitato lì.

Nonna Ilda mi lasciò davvero libera e mi resi conto allora di non aver mai messo alla prova il mio “senso del tempo”. Genitori e nonni paterni organizzavano le mie attività con cura, tanto che raramente mi annoiavo, rimpallata com’ero tra loro e ciò che ritenevano fosse un bene per me; per farla breve, non mi era concesso il tempo di pensare al mio tempo.

Fu straniante e difficile da affrontare. Cosa avrei scelto di fare? La nonna non mi dava alcun suggerimento, ma avevo la sensazione che fosse curiosa di capire come avrei risolto il problema. Iniziai con l’esplorazione della casa e scoprii due grandi stanze adibite a biblioteca: le pareti tappezzate di libri mi suscitavano stupore ogni volta che entravo in quegli ambienti ordinati, silenziosi e accoglienti in cui era custodita un collezione meravigliosa, da cui provenivano anche alcuni dei volumi che nonna Ilda mi aveva regalato. Lì dentro potevo scegliere di leggere qualunque cosa volessi, a patto di parlarne poi con lei, che il più delle volte mi ascoltava raccontare mentre era impegnata a tagliare e cucire qualche abito nella “stanza degli scampoli”.

I nonni, infatti,  erano stati sarti, titolari di un piccolo ma famoso atelier, che lei preferiva chiamare “bottega”, nel cuore di Castello; avevano confezionato abiti per quarant’anni, accompagnando i clienti nei momenti più importanti della loro vita, così aveva detto la nonna mostrandomi gli strumenti del mestiere in quell’enorme camera frusciante di carta velina e stoffe; poggiandosi sui grandi tavoli in legno, tra fantasie multicolore, forbici e rocchetti di filo,  i suoi occhi color caramello brillarono e io mi resi conto solo in quel momento di aver ereditato da lei la sfumatura dorata che illuminava anche il mio sguardo.

Nonno Elmo, purtroppo, morì quando io avevo appena qualche mese, perciò non mi ricordavo di lui, che era appena un’ombra confusa in alcune vecchie fotografie di famiglia; la nonna mi raccontò che all’epoca decise di chiudere l’atelier, con grande disappunto di mia madre, ma  dopo qualche tempo  ricominciò a lavorare a casa perché, lo ammise quasi vergognandosene, alle sue mani mancavano troppo tessuti e filati. Talvolta qualcuno dei vecchi commessi veniva ad aiutarla e insieme, nella stanza degli scampoli, confezionavano  abiti di  ogni genere; imparai presto che la nonna prediligeva aiutare chi non avrebbe potuto permettersi un abito di sartoria, infatti, in molti casi, barattava il suo lavoro con piccoli favori e commissioni nella città bassa.

Giorno dopo giorno, nella quiete di quella grande casa, mi abituai a scegliere cosa volessi fare.

Ritrovai i vecchi pattini a rotelle di mia madre e  mi esercitai  nel corridoio di casa, riempiendomi le ginocchia di lividi sulle piccole mattonelle decorate in stile liberty. Feci amicizia con un gruppo di ragazzini che abitavano nei palazzi vicino a quello della nonna: ci ritrovavamo in Piazza Carlo Alberto, quando finalmente l’ombra degli edifici circostanti si era  allungata su tutta la sua estensione, e inventavamo ogni gioco possibile e immaginabile da farsi con palloni, palline e racchette. Talvolta aiutavo nonna Ilda a cucinare: mi tuffavo nel suo freezer a pozzo, che mi pareva spettacolare nella sua enormità, alla ricerca del pesce che mi aveva chiesto di scongelare, e rubavo uno dei suoi squisiti ghiaccioli all’anguria.

Mia madre, lo sapevo bene, avrebbe detto che stavo vivendo come una selvaggia: forse avrebbe avuto ragione, ma a me piaceva moltissimo.

Nonna Ilda non mi assillava continuamente con domande idiote, ma in compenso soddisfaceva le mie innumerevoli curiosità, soprattutto mentre facevamo la sua passeggiata preferita lungo il Bastione Santa Croce.

Aveva imparato a cucire da sua madre, che aveva lavorato come sarta e costumista  per il Teatro Civico di Cagliari, fino a che non era stato distrutto dai bombardamenti anglo-americani del 1943; si era innamorata del nonno, figlio di un commerciante di tessuti, a 18 anni, mentre era fidanzata con un altro giovanotto che studiava per diventare avvocato; nel 1942, mentre le truppe italiane battevano in ritirata sul fronte russo, il nonno fu dato per disperso per quasi un anno e quello fu il periodo più  angosciante della vita di nonna Ilda, che non voleva rassegnarsi all’idea di essere diventata una giovane vedova.

Nei suoi ricordi la vecchia Cagliari era vivida e bellissima, una città in fermento, ferita dalla Guerra, ma desiderosa di resistere e rinascere. In poco più di una settimana, io e nonna Ilda perlustrammo tutto il quartiere Castello: ascoltai storie meravigliose, di congiure, assassinii e rivolte, che quasi potevo vedere svolgersi davanti ai miei occhi, e mi pareva di essere stata catapultata in un’altra città, di vivere un tempo diverso: diventammo amiche, io e la nonna, e lo seppi con certezza quando mi portò in via Pietro Martini a visitare i locali dell’atelier, che negli anni si era  trasformato in un circolo ricreativo per gli anziani del quartiere.

Quella sera imparai a giocare a briscola e a bridge, assaggiai il mirto per la prima volta nella mia vita e memorizzai alcuni improperi in dialetto cagliaritano stretto. Nonna Ilda accennò qualche passo di charleston con gli appassionati di ballo che si stavano esercitando nel salone più grande e chiacchierò con tutti i presenti; mentre tornavamo a casa mi confidò che non avrebbe potuto essere più felice per il destino della sua bottega.

Da parte mia ebbi la sensazione che Castello mi appartenesse, o che io appartenessi a lui.

Poi arrivò la notte dei fulmini.

C’era l’imperatrice Sissi in tv e io  facevo ridere la nonna  imitando le espressioni da pesce lesso di Franz Joseph, quando dalla finestra vedemmo per un istante la facciata della Cattedrale di Santa Maria illuminarsi a giorno.

Il boato arrivò qualche decina di secondi dopo e fece tremare i vetri;  nel giro di pochi minuti si alzò un vento impetuoso e fulmini e tuoni iniziarono in cielo una danza dai ritmi sempre più frenetici, fino a che, con un piccolo scoppio, la corrente non mancò in tutto il palazzo. Balzai sul divano, emettendo un gridolino stridulo e nonna Ilda subito mi intimò di restare dov’ero; aveva diverse torce d’emergenza sparse per la casa e le accese tutte, ma quando nella penombra vidi il suo volto, mi accorsi  subito che era agitata.

Tutto il quartiere era immerso nell’oscurità, i lampioni in piazza Carlo Alberto erano spenti e dalle finestre dei palazzi vicini si potevano intravedere i bagliori malfermi di pile e candele; io e la nonna ascoltammo il temporale per un po’, sedute l’una accanto all’altra sul divano, fino a che non mi  chiese di seguirla, perché doveva fare qualcosa di importante. Ci ritrovammo nella stanza degli scampoli e lei mi diede la torcia da reggere: armeggiò per qualche istante con  il cassetto di una vecchia credenza e ne tolse fuori una lanterna arrugginita, aprì lo sportellino, a cui mancava un pezzo di vetro, e accese il mozzicone di candela inserito all’interno con un fiammifero.

La accompagnai alla finestra, dove sistemò la lanterna accesa sul tavolo da lavoro lì accanto, facendo attenzione che non si spegnesse.

“Nel caso qualcuno perdesse la strada” mi disse piano. Un sorriso lieve apparve sul suo volto affilato, facendo risaltare nell’ombra gli zigomi alti.

In quell’istante sentimmo bussare violentemente al portone di casa e entrambe sussultammo.

Tra i colpi inferti alla porta, riconoscemmo la voce del vicino che chiedeva aiuto; nonna Ilda si affrettò ad aprirgli e subito capimmo che era in preda al panico; sua moglie, una maestra in pensione che a ogni incontro sul pianerottolo mi regalava manciate di Galatine, nel buio aveva sbattuto la testa contro uno spigolo e si era provocata un taglio. La nonna si precipitò nell’appartamento accanto, chiedendomi di raggiungerla dopo aver preso la valigetta del pronto soccorso nel mobile del bagno padronale; sparì nel buio con il vicino che le ansimava dietro e mi lasciò, con la sola compagnia della torcia. Deglutii e mossi qualche passo circospetto nel corridoio scuro, che per qualche istante fu squarciato da un lampo: chiusi gli occhi e aspettai il tuono, che mi inchiodò alle mattonelle in stile liberty. Mi feci forza,  continuai a camminare per raggiungere il bagno padronale in fondo al corridoio e arrivai davanti alla stanza degli scampoli, dove la flebile luce della lanterna continuava a tremolare accanto alla finestra.

E lo vidi.

Era seduto al tavolo da lavoro e per un istante pensai si trattasse di uno dei vecchi commessi della sartoria che veniva ad aiutare la nonna con il lavoro. L’attimo dopo realizzai che era troppo giovane e con terrore mi chiesi chi fosse e come avesse fatto ad entrare in casa. Lui mi fece l’occhiolino e sorrise, tra i bagliori di quella vecchia lanterna che pareva sul punto di spegnersi da un momento altro. Ero pronta a strillare, ma un pensiero sciocco mi si materializzò nella mente: era bellissimo, quel ragazzo con i capelli impomatati, e sembrava così felice di essere lì, sorridente nella luce spettrale!

Di certo lo pensava anche nonna Ilda, che intanto era arrivata alle mie spalle e guardava quell’apparizione gentile con occhi pieni di meraviglia.

Ci fu un’altra esplosione e la luce tornò.

Ero frastornata da quei pochi minuti densi di  emozioni fortissime, ma nonna Ilda non mi diede il tempo di fare domande e mi spinse verso il bagno, dicendomi che la vicina era svenuta e  aveva bisogno di una medicazione in attesa dell’ambulanza. Afferrai la valigetta del pronto soccorso e quando ripassai davanti alla stanza degli scampoli diedi un’occhiata al suo interno, ma, naturalmente, lui era scomparso.

Il temporale flagellò Cagliari per tutta la notte e io non riuscii a chiudere occhio, se non al mattino molto presto, dopo aver fatto colazione insieme alla nonna.  Avrei voluto chiederle se avesse visto il ragazzo nella stanza degli scampoli, ma anche se ero certa che fosse così, temevo che mi avrebbe mentito per non spaventarmi e piuttosto che affrontare quella delusione, preferii tenere per me pensieri e congetture.

Nei giorni seguenti la nostra routine tornò alla normalità e, nonostante le innumerevoli domande che  mi ronzavano in testa, non riuscii a parlare della notte della tempesta; nonna Ilda, d’altro canto, sembrava particolarmente allegra e aveva ricominciato la mia “educazione alla libertà” con ancora più convinzione di prima.

Passarono così quattro settimane. A fine Luglio i miei genitori tornarono dalla Tunisia, ma a me pareva fossero trascorsi anni da quando la mia più grande preoccupazione era l’imminente ingresso alla scuola media. E ora eccola lì, la mamma, pronta  a riportarmi indietro, alla vecchia vita in cui non ero in grado di decidere niente per me stessa. Prima di andare, abbracciai forte nonna Ilda e le dissi  a voce ben alta che sarei tornata a trovarla ogni settimana. Rise di gusto e,  mentre lo sguardo attonito di mia madre passava dall’una all’altra, rispose che per lei andava benissimo. Poi mi porse un pacchetto e mi svelò che conteneva un libro di cui avremmo dovuto parlare al più presto.

Era Moby Dick.

Aprii il regalo con cura, nella mia cameretta. Tutto intorno a me sentivo la periferia di Cagliari, spoglia, arsa dal sole,  con la sua storia ancora tutta da scrivere. Mentre sfogliavo il volume, ansiosa di iniziare la lettura, trovai  tra le pagine una busta su cui era scritto il mio nome: “Mina”. Conteneva una foto in bianco e nero, che ritraeva un giovane soldato con i capelli impomatati e il sorriso pieno di fiducia.

Sul retro, una dedica semplice: “Con amore, tuo marito Elmo”.

Qualche tempo dopo scoprii che la lanterna accesa dalla nonna nella notte di temporale era appartenuta al nonno; era uno dei pochi oggetti del corredo militare che aveva conservato, perché la sua luce gli aveva salvato la vita. Il reggimento di cui faceva parte, il 120° Artiglieria, era stato sorpreso da un bombardamento nella regione russa di Saratov, sulle rive del Volga; gravemente ferito, il nonno aveva trovato riparo tra le macerie della stazione ferroviaria, ma non sarebbe mai stato notato dai soldati in ricognizione se non  avesse segnalato la sua presenza  con la lanterna che aveva in dotazione. I russi lo portarono nel lager-ospedale di Volsk, dove rimase internato fino alla resa dell’Italia, nel settembre del 1943.

Ieri Cagliari ha avuto la sua prima tempesta di fulmini estiva.

Nella stanza degli scampoli, come al solito, c’era un po’ di confusione, perchè io non sono ordinata quanto la nonna nel lavoro, ma come lei ho acceso la lanterna di nonno Elmo e l’ho sistemata accanto alla finestra.

È diventato un gesto abituale, nelle notti di temporale: nel caso qualcuno  perdesse la strada e avesse bisogno di una piccola luce a guidarlo, tra innumerevoli ostacoli, verso casa.

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