L’ultima consegna

Il signor Dino incrociò le braccia sul petto e prese a strofinare vigorosamente le spalle con le mani ruvide. Mosse qualche passo verso la stufa, chinando la testa in avanti quel tanto che bastava per sentire il calore accarezzargli il volto; era una sensazione stupenda, un sollievo immediato che lo proiettava istantaneamente verso il tepore della sua piccola casa, dove lo attendeva il caminetto già pronto per essere acceso.

Gli occhi neri si poggiarono sull’orologio sistemato in cima alla porta della bottega: mancava meno di un’ora alla chiusura e probabilmente, col gelo che era calato dalle montagne come uno schiaffo inatteso in quel timido inizio d’inverno, nessun cliente sarebbe più venuto a fare acquisti per quella sera.

“Chiudiamo prima?” chiese Dino facendo l’occhiolino alla gatta Minù, che lo fissava imperscrutabile dal bancone principale del negozio, “Quasi quasi andiamo via e ci prepariamo una buona zuppa, con lenticchie, cavolo nero…”.

Fece per spegnere la stufa, ma improvvisamente il telefono squillò, facendolo trasalire; Minù saltò giù dal bancone e sbadigliò, dimostrando così tutto il suo disappunto.

“Pronto? Buonasera signora Delia… si… no, nessun disturbo, dica pure”.

La conversazione durò appena qualche minuto, perché Dino non esitò nemmeno un istante ad accettare l’ordine, anche se sapeva bene che per arrivare a casa di Delia Melis si sarebbe dovuto arrampicare con la sua Ape 50 lungo le propaggini di Punta Stella: in quella notte, che si prefigurava gelata, non avrebbe mai potuto lasciare l’anziana donna senza la bombola del gas, tanto più che era un giorno di festa, ancora per una manciata di ore.  Si imbacuccò per bene e uscì dalla bottega: c’era più freddo di quanto si aspettasse e mentre entrava nella rimessa gli parve di percepire il sentore della neve; si affrettò a caricare la bombola sull’Ape, ma i pensieri si muovevano più veloci delle mani. Chi si sarebbe occupato degli abitanti più anziani del paese se lui avesse chiuso il negozio? I giovani, ormai, preferivano costruire le loro vite nei grandi centri urbani e le botteghe come la sua, pian piano, stavano sparendo, perché le famiglie del circondario preferivano rifornirsi nei supermercati che stavano sorgendo numerosi nelle città a valle: forse avrebbe dovuto dare retta a sua figlia, da poco trasformatasi in una “cittadina”, e “ottimizzare e modernizzare”, rinunciando all’idea di aiutare sempre tutti, di qualunque cosa avessero bisogno?

Tornò in negozio giusto il tempo di spegnere le luci e sistemare Minù nella sua cesta di vimini: la gattina, quasi sapesse cosa la aspettava, si infilò immediatamente sotto la morbida coperta in lana che l’avrebbe protetta dal freddo, cosicché, del batuffolo bianco che era, solo il musetto rosa spuntava appena dal caldo riparo.

“Sei tu che vuoi venire sempre con me!” si giustificò Dino entrando nel piccolo, sgangherato mezzo di trasporto e sistemandosi accanto il cesto, poi mise in moto e partì, addentrandosi per le stradine del paese.

Incrociò pochissime anime, che con ogni probabilità stavano tornando a casa dopo aver trascorso il giorno dell’Epifania da qualche parente o amico, e per un attimo lo attraversò il pensiero che sarebbe stato normale, se avesse provato un pizzico di invidia per quelle persone; invece si sentì semplicemente felice per loro, per quella quieta normalità di cui poteva essere testimone e, in qualche modo, garante.

Una volta attraversato il centro storico, si lasciò alle spalle il fitto delle case e cominciò a salire verso la montagna: le dimore in pietra si facevano via via più rade e, illuminate com’erano da calde luci arancioni che tremolavano nel buio, gli ricordarono l’abitato di un grazioso presepe della sua infanzia. Ci fu un sobbalzo e Minù emise un miagolio acuto, come a segnalargli di restare concentrato sulla guida, di non perdersi nei pensieri che gli volteggiavano nella testa, tra passato e futuro. La salita si fece più ripida e il paese, infine, scomparve alla vista. Dino e Minù si inoltrarono nel bosco di conifere, accompagnati dal borbottio dell’Ape, che sembrava protestare per lo sforzo che stava compiendo; forse, già l’indomani mattina, gli abeti che ne osservavano il passaggio stentato sarebbero stati ciechi, coperti da uno spesso strato di neve.

La casa di Delia apparve tra gli alberi dopo mezz’ora di quel preludio invernale.

Dino si affrettò a fare la consegna, provando a ignorare i ricordi che possedeva di quel luogo, quando la famiglia Melis era giovane e numerosa; montò la bombola, si assicurò che gli ugelli della cucina a gas di Delia non fossero ostruiti e, dopo aver accettato una scatola di latta piena di bucconettes alle nocciole in aggiunta al pagamento, tornò a sedere al posto di guida, con il cuore gonfio di malinconia mista a soddisfazione.

“E ora, a casa Minù!” esclamò, “È tempo di zuppa!”; la gattina articolò una risposta vivace e emerse da sotto la coperta, come a dare il suo assenso alla proposta in modo ancor più netto. La neve, intanto, aveva cominciato a fioccare, lenta e silenziosa.

Nell’anno che era appena cominciato, quasi certamente Dino avrebbe dovuto rivedere le modalità del suo lavoro; era costantemente in perdita e ormai mantenere la bottega così come era stata creata dai suoi nonni nel primo dopoguerra, come un piccolo scrigno traboccante di meravigliose opportunità, tra conserve e utensili per la casa, vini di proprietà e minuteria utile a ogni genere di riparazione, era diventato troppo oneroso. Eppure, in quel momento, mentre scendeva verso il paese dopo aver compiuto il suo dovere, Dino non poteva fare a meno di sentirsi in pace col mondo, “completo”, come quando era viva la sua amata Margherita. Cosa avrebbe dovuto fare, dunque, della vita che aveva sempre vissuto? Ci fu un altro sobbalzo e Minù miagolò indispettita. Dino manovrò l’Ape per riassestarsi sulla stradina in discesa, che i primi fiocchi di neve avevano già reso sdrucciolevole, ma l’impresa fallì e il mezzo precipitò nel fitto del sottobosco, finendo per essere ingoiato dal buio, molti metri più in basso.

Trascorse del tempo, impossibile dire quanto.

***

Dino si svegliò. Ancor prima di aprire gli occhi, sentì il calore sul viso e immaginò di essere in bottega, davanti alla sua stufa. Poi ricordò il fracasso dell’Ape che si schiantava e ebbe un sussulto, pensando a Minù prima che a se stesso. Schiuse le palpebre, impaurito per ciò che avrebbe visto.

Era disteso davanti a un piccolo fuoco, che guizzava allegro all’interno di un anfratto roccioso, al riparo dalla neve che ormai fioccava copiosa tutto intorno. Minù era accanto a lui e sbocconcellava con soddisfazione la polpa scura di quella che sembrava una grassa quaglia bollita, come quelle che lui era solito preparare con il mirto. Trasalì quando vide la donna che lo stava fissando in silenzio, gli occhi azzurro chiaro appena riscaldati dalla danza delle fiamme.

“Stai bene?” chiese.

Dino provò a mettersi seduto. La testa gli doleva tremendamente e sentiva che la spalla sinistra era uscita dalla sua posizione abituale.

“Più o meno… credo di si”.

La donna annuì. Pescò da un piccolo calderone fumante un mestolo di zuppa, riempì una ciotola di legno e la porse a Dino. Lui la prese, allungandosi a fatica. Si sentiva stordito, ma il profumo di quella pietanza parve rinvigorirlo.

“Sei stanco, Dino. È normale, sai”.

La guardò, stupito.

“Mi conosci?” chiese, provando a ricordare dove aveva visto quel volto che, a pensarci bene, gli suscitava una sensazione familiare.

“Chi non ti conosce da queste parti? Sei un punto di riferimento per la comunità”; la donna sorrise. Infinite rughe si disegnarono attorno ai suoi occhi, come i raggi di un sole immensamente luminoso. “So come ti senti, Dino, ma non devi essere testardo”.

“Cosa… cosa vuoi dire?” borbottò d’istinto, mentre la zuppa di fave e menta gli accarezzava piacevolmente il palato.

“Lo sai bene”, lo rimproverò l’anziana signora, cominciando a grattare con le dita nodose la testa di Minù.

Era vero, Dino lo sapeva. Non voleva arrendersi, non voleva cambiare la sua vita, così come gli ripeteva sempre sua figlia, per stare “al passo con i tempi”.

“Ero anch’io come te” mormorò la donna come se avesse sentito i suoi pensieri, “Mi sono dovuta adattare. Non è stato facile, ma ci sono riuscita. Così continuo a fare il mio dovere, non vedi?”.

Dino sentiva la testa pulsare. Guardò la maestosa signora, avvolta com’era tra gli strati di scialli e la mantella, l’ampio cappuccio calato sulla testa che nascondeva a stento la massa candida di capelli ricci, le parve un ricordo che si era fatto carne davanti a lui.

“Sono proprio io, Dino. Non essere incredulo, non sei mica uno stupido, di quelli che non ammettono la verità nemmeno quando quella bussa alla loro porta e si siede a tavola con loro!”; sorrise ancora, poi, muovendosi con estrema lentezza, afferrò il grande sacco di juta che giaceva vuoto accanto a lei e lo sollevò appena, mostrandoglielo.

“Anche quest’anno ho finito. Ho appena fatto la mia ultima consegna, proprio come te. Un tempo il mio viaggio era più lungo, ora, invece, mi limito ad attraversare il mondo per qualche manciata di persone speciali, da rimproverare severamente o da premiare per la bontà d’animo dimostrata durante l’anno”.

“L’ultima consegna… proprio come me?” ripeté lui deglutendo sonoramente.

La donna si limitò a guardarlo negli occhi, mentre Minù, che intanto si era accoccolata accanto al fuoco, decise che era giunto il momento di schiacciare un pisolino.

Dino sospirò: “Dunque… sei proprio lei?” chiese, “Esisti davvero?”.

“Esisto ancora”; inaspettatamente l’anziana signora scoppiò a ridere; “Anch’io ho pensato di ritirarmi, sai? Sento il tempo, mi curva la schiena, di anno in anno. Poi, detto tra noi, non mi va molto a genio questo mondo impertinente. Pochi credono in me e saranno sempre meno, in futuro”.

Dino annuì.

“Se l’avessi fatto, però, non sarei stata più me stessa. E poi…” continuò guardandolo di sottecchi, “…so che ci sarà sempre qualcuno in attesa della mia visita. Perciò continuo il mio viaggio. Sola soletta, in giro per il mondo all’alba di ogni inverno”.

Dino fu tentato di risponderle che anche lui era solo, ma sapeva che la donna lo avrebbe rimproverato. Le sembrò di sentirla, mentre lo chiamava “vecchio lagnoso”, così preferì tacere. Sua figlia, del resto, si era offerta più volte di aiutarlo a sistemare i conti dell’attività e gli aveva proposto un piano di gestione che forse avrebbe ridotto un poco l’immensità di merce che teneva in negozio “per ogni evenienza”, ma che gli avrebbe permesso di continuare a lavorare. In modo diverso, forse, ma senza dover abbandonare la signora Melis e tutti gli altri anziani clienti che avevano bisogno di lui, nei piccoli paesi montani del circondario.

“Ah, vedo che hai capito!” annuì la donna, “Sai, i giovani sono un po’ sfacciati, ma non hanno sempre torto!”. Rise di gusto.

Dino spalancò gli occhi, ma, dopotutto, non si sorprese troppo per il fatto che  la donna avesse ascoltato i suoi pensieri, come se lui li avesse pronunciati ad alta voce.

“E adesso?” mormorò, “È troppo tardi per rimediare?”.

Lei si voltò a osservare la neve: “Il mondo corre, Dino, non possiamo farci niente, ma sono felice di aver chiacchierato con te stanotte. Potresti farmi assaggiare qualcuno dei tuoi dolci?”.

“Quali dolci?” chiese, prima di vedere, accanto a Minù, la scatola di latta che conteneva i bucconettes di nocciole della signora Delia; “Certo!”, esclamò, affrettandosi a porgerli alla donna.

Lei li assaporò con lentezza.

“È un gusto inconfondibile, quello del dono. Non lo cambia il tempo” mormorò.

***

Dino si svegliò. Era seduto sotto un grande abete, i cui rami erano già carichi di neve. In grembo, Minù dormiva tranquilla sotto la sua coperta. Si guardò intorno: sul ciglio del sentiero giaceva l’Ape, accartocciata tra i tronchi degli alberi.

“L’abbiamo scampata bella, vero Minù?”.

Si alzò a fatica e constatò con stupore di essere illeso. Si sfiorò la spalla, poi la testa e gli tornò in mente il sogno che aveva fatto, in cui era gravemente ferito. Ricordò il fuoco acceso nell’anfratto roccioso, l’anziana donna e le parole che avevano scambiato.

Mosse qualche passo nella neve, seguendo Minù che, intanto, si era premurata di esplorare i dintorni. Affacciandosi a est, lungo la strada, poteva vedere le luci delle case che sorgevano alla periferia del paese.

“Non siamo lontani, Minù. Soffriremo un po’ per il freddo, ma quando saremo arrivati…”; le parole rimasero sospese, perché il pensiero corse alla zuppa calda, ma lo stomaco, stranamente rifocillato, sembrava non necessitare quel conforto.

A ben vedere, si sentiva pervaso da un tepore fin troppo intenso: si accorse allora, con immenso stupore, di indossare un’ampia, pesante mantella nera di lana, dotata di cappuccio.

Prima che potesse ripercorrere i dettagli del suo incontro con l’anziana donna che l’aveva indossata prima di lui, la gattina gli saltò tra le braccia, esortandolo così a intraprendere il cammino verso casa.

Nel selvaggio nord – Ivan Ivanovič Šiškin (1891)

7 commenti Aggiungi il tuo

  1. marisasalabelle ha detto:

    Bellissimo racconto, molto suggestivo!

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    1. Lorella_Co ha detto:

      Ti ringrazio, Marisa! Lieta che lo abbia apprezzato!

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  2. maxilpoeta ha detto:

    bellissima narrazione, l’ho apprezzata molto 👍👍👏👏👏😊😉 un caro abbraccio, buona domenica..🤗🤗

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    1. Lorella_Co ha detto:

      Grazie Max, sono felice che tu abbia apprezzato l’avventura del signor Dino! Un abbraccio e buona domenica anche a te!

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      1. gabrypellizzer ha detto:

        Racconto delicato, a tratti poetico. Mi Piace molto

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  3. gabrypellizzer ha detto:

    Racconto delicato, a tratti poetico. Mi Piace molto

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    1. Lorella_Co ha detto:

      Ne sono felice! Ti ringrazio 🙂

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