Schiocchi d’inverno

Non visitava la casa dei nonni materni da molti anni.

Amava trascorre del tempo lì, ma sempre più spesso, al piacere di percorrere il lungo corridoio in cui aveva imparato ad andare sui pattini a rotelle, si mescolava una nostalgia così languida da renderlo malinconico per lunghe ore; così, quasi che il cuore con l’età gli si fosse fatto più molle, prese a evitare di perdersi nelle stanze ammantate d’infanzia e spensieratezza della casa.

In quella mattina di fine gennaio però, in cui qualunque sforzo per riscaldare le mani sembrava vano, gli capitò quasi per caso di ritrovarsi nel cortile in cui era stato bambino, così decise di essere coraggioso e attraversò la soglia. Gli parve che la casa fosse animata: non vide nessuno, per la verità, ma percepì rumori e profumi oltre le porte che, su quel corridoio infinito, si affacciavano tutte. Chissà se si sarebbero accorti di lui, lo desiderò per un istante, ma poi realizzò che forse li avrebbe disturbati, tutti presi com’erano dalle loro occupazioni.

Se avesse dovuto scommettere, avrebbe detto che in cucina la nonna stava preparando il suo clafoutis di ciliegie, mentre il nonno le danzava intorno assaggiando la monta di uova e zucchero. Sua madre probabilmente era in salotto e ascoltava i dischi dei Depeche Mode con le cuffie, mentre suo zio era chiuso a strimpellare la sua musica nella stanza più isolata, in fondo al corridoio, alla tastiera o alla chitarra. Forse, se si fosse avvicinato, avrebbe sentito qualche nota e allora non sarebbe stato possibile evitare di irrompere dalla porta e sedersi lì a guardarlo compiere le sue magie.

Dopotutto, avrebbe anche potuto decidere di lasciarsi andare, quella mattina, attraversare la malinconia che già sentiva tracimare dall’interno e restare con tutti loro, limitandosi a sentir raccontare storie del passato, a cui avrebbe ripensato prima di addormentarsi. Invece preferì rifugiarsi nella piccola biblioteca che la sua bisnonna, insegnante delle elementari in tempi di guerra, aveva allestito nella stanza accanto alla sua grande, infinita camera da letto.

L’ambiente era così familiare che gli sembrò di essere entrato in quel piccolo mondo con un balzo istantaneo: la luce soffusa odorava di legno e carta, ma tra tutti quei volumi  che si reggevano gli uni su gli altri negli scaffali, trovò il suo portatile, sempre acceso, sempre aperto, come una finestra irrimediabilmente spalancata dal vento. Si avvicinò, preso dal sospetto di essere vittima di uno scherzo, perché quello strumento, da cui raramente si allontanava nella quotidianità, non doveva essere lì: in quella stanza era quasi un insulto al tempo che vi aveva vissuto.

Si affacciò oltre lo schermo, ma non vide niente. C’erano delle parole, ma lui non riusciva a distinguerle.
Fu allora che lei gli si fece vicina, così vicina da poterle sfiorare il volto. Non lo guardò, ma subito si mise a leggere dal computer, a indicare con le dita sottili proprio quella parola, a spiegare, come se avesse compreso qualcosa di lampante. Voltandosi verso la donna, vide il suo collo, poco sotto l’orecchio, a portata del desiderio che era solito nascondere, così la baciò in quel luogo infinitamente piccolo, ancora e ancora, ripetendo un muto schiocco di labbra sulla sua pelle, come se avesse dovuto cogliere un’occasione che non si sarebbe presentata mai più.

Lei lo guardò, infine, e i suoi occhi raccontavano di imbarazzo e gioia infantile, come a dire, lo so, lo so.
Lui colse quel sentimento e ne fu annientato.

Si svegliò in una fredda mattina di fine gennaio: all’improvviso la solitudine del suo appartamento fu colma di presenze. A lungo avrebbe dovuto fare i conti gli schiocchi d’inverno che ancora risuonavano dalle stanze della sua infanzia.

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