Di rondini e campane

NdA: Per Natale avevo deciso di scrivere un racconto ispirato alla canzone “Carol of the Bells”, uno dei canti delle feste che preferisco. Non avrei mai immaginato che le mie ricerche mi avrebbero portata a cambiare “percorso”: dall’Ucraina negli anni della Grande Guerra a Home alone – Mamma ho perso l’aereo del 1990, i tempi si sono allungati, ma spero vi faccia piacere leggere dell’incredibile viaggio nel tempo (con licenza poetica) di una melodia antica, che è arrivata alle soglie del 2021 con un numero infinito di cover realizzate dagli artisti più disparati. Per me, quella manciata di note ha qualcosa di magico… e un po’ di magia, per l’inizio del nuovo anno, ci vuole davvero. L.

***

Kiev, Dicembre 1916

– Myko? -.

Mykola Leontovych trasalì. Non aveva sentito Claudia entrare nella stanza  e quando sollevò la testa dallo scrittoio e si voltò a guardarla, capì dall’espressione del suo volto quanto fosse tardi.

– Mi hai chiamato per cena e non sono sceso, vero?- chiese.

– No, infatti, e Halyna c’è rimasta molto male. Voleva farti leggere il compito di storia prima di andare a dormire -, lo rimproverò Claudia cullando la loro secondogenita, -Domani mattina non  saltare la colazione, mi raccomando. Vedrai che ti perdonerà, è così fiera di te-.

Myko annuì. Si alzò dalla  sedia con lo slancio di chi non vedeva l’ora di stringere tra le braccia sua moglie e la sua bimba, un batuffolo morbido che articolava in continuazione gridolini acuti; sentì la schiena scricchiolare e si avvicinò più lentamente di quanto desiderasse.

– Il tuo papà è un vecchietto ormai…- rise Claudia vedendo la smorfia di dolore dipinta sul volto di  Myko.

– Ah, non è vero…- cantilenò lui prendendo la piccola Yevheniya e cullandola a passo di danza, – È solo che sono seduto su quella sedia da stamattina…-.

-E adesso hai l’occasione di sgranchirti un po’ le gambe, perché devi occuparti della bambina- aggiunse Claudia, – Io devo correggere i compiti di matematica dei miei studenti. Domani è l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze e…-.

-Aspetta, anche io devo finire…-; Mykola Leontovych tacque, perché sul volto di sua moglie era comparso uno sguardo speciale. Lo sguardo che non ammetteva repliche.

-Va bene, va bene… io e Yevheniya ce la caveremo benissimo da soli- disse Myko accomodandosi sul consunto sgabello davanti al pianoforte Wernam, -Vorrà dire che se il concerto sarà un fiasco…-.

-Vecchietto e lagnoso!- rise Claudia sistemando la cuffia della piccola Yevheniya e  mettendole in mano il suo sonaglio d’argento preferito.

-Temo che sarà un disastro- sospirò Myko, – Olek è stato molto chiaro. Vuole un brano che ricordi la nostra tradizione musicale, che sia solenne e di buon augurio per il futuro… ah, il futuro. Niente di più incerto,  per il nostro paese in particolare-.

Claudia lo guardò dolcemente: -Capisco le richieste di Olek, sai? Sono tempi bui e desidera che il coro degli studenti, all’Università, infonda  un po’ di speranza in tutti noi durante il concerto-.

– Lo vorrei anch’io, ma non credo di riuscire nell’impresa. Nelle antologie di musica popolare ho trovato qualche melodia interessante a cui ispirarmi, però…-; le parole gli si fermarono in gola. Non sapeva nemmeno lui cosa non lo convincesse nelle note e nei versi che aveva abbozzato nei giorni precedenti.

– Mykola Leontovych!- lo riproverò sua moglie, -Non lo starai facendo di nuovo, vero? Quando arrivi quasi alla fine di un lavoro ti fai prendere da mille dubbi e ti ritrovi a mandare tutto all’aria e ricominciare da capo! -.

-Hai ragione Claudia- ammise Myko, – È che mi sento responsabile per Olek. Questo concerto potrebbe aiutarlo a realizzare il suo sogno… il Coro della Repubblica Ucraina! Non sarebbe bello se gli conferissero ufficialmente l’incarico di formarlo?-.

-Sarà fantastico, l’orgoglio del nostro paese e della nostra musica. Sono sicura che andrà tutto per il meglio, lo sento!- lo incoraggiò Claudia attizzando il fuoco nel caminetto, -E  prometto che domani ascolterò le tue bozze-, aggiunse, anticipando la richiesta di Myko. -Domani, giuro. Con la fine della scuola sarò più libera, almeno per qualche settimana-. Claudia osservò le fiamme che languivano nel focolare: -Così va meglio, non credi?- chiese.

Myko le sorrise. La guardò uscire dalla stanza con piglio sicuro e seppe che, come sempre, sua moglie non aveva il minimo dubbio sul fatto che sarebbe riuscito a “trovare la musica”, così gli diceva sempre.

Prese dallo scrittoio una delle raccolte di canzoni popolari ucraine su cui stava facendo delle ricerche e tornò a sedere al pianoforte, con Yevheniya che lo fissava, rasserenata dal suo abbraccio e felice di potergli tirare la corta barba bionda spruzzata d’argento.

Myko provò al piano qualche accordo e cantò alcuni dei versi che aveva composto. Gradevoli, certo. Sarebbero  senz’altro piaciuti al pubblico, ma dopo qualche tempo nessuno li avrebbe ricordati. E Mykola Leontovych sentiva che stavolta la sua musica  avrebbe dovuto avere un destino diverso. Non era solo per sé, per Olek o per il Coro  della Repubblica Ucraina. Aveva come un presentimento:  il canto che stava cercando avrebbe attraversato la sua vita e quella di molti altri. Sfogliò il libro e suonò ancora.

– Credo che passeremo qui tutta la notte, mia piccola Yevheniya – sussurrò. La bambina sembrò tutt’altro che turbata dalla notizia.

Myko ripercorse ancora una volta le pagine su cui aveva lasciato un segno e si fermò a un brano che lo aveva incuriosito. Era una melodia apparentemente semplice, che si basava su un “ostinato” di quattro note: le intonò e Yevheniya rise. Uno squittio delizioso, accompagnato da uno di quei piccoli scossoni che percorrono i neonati all’improvviso, cogliendo di sorpresa i genitori inesperti.

-Piano piccolina…- rise Myko, -Ti piace questa musica?-.

Quattro note, ripetute due, tre, quattro volte. La bimba rise ancora, agitando il suo sonaglio d’argento.

Era come se Yevheniya avesse scoperto la musica per la prima volta in quel preciso istante e più Myko ripeteva le note, più lei sembrava felice, con quel suo sonaglio che tintinnava allegro.

-Sembri un uccellino nel nido, piccolina mia…- sussurrò Mykola Leontovych, -…che aspetta ansiosa il ritorno della sua mamma e del suo papà-.

Chissà perché a Myko vennero le lacrime agli occhi, mentre con una mano continuava a ripetere quelle quattro note sui tasti del vecchio Wernam e con l’altra reggeva la sua Yevheniya, nata in giorni di Guerra: quella civile che attanagliava l’Ucraina e quella mondiale che presto avrebbe insanguinato tutti i continenti.

Quattro note, su cui costruire l’attesa e la speranza. L’augurio di un futuro sereno in tempi difficili, in cui una melodia semplice scalda un cuore indurito dal gelo.

– Ricordati, piccolina…- sussurrò Myko, -Ricordati della bellezza e dei doni che la vita ti farà, uccellino mio-.

Mykola Leontovych si mise al lavoro. Mentre la neve fioccava copiosa sui tetti di Kiev, lui scrisse la storia di una rondinella che sfidava coraggiosamente il gelo dell’inverno, per annunciare che presto la primavera sarebbe arrivata e sarebbe stata carica di doni e sorprese.

Per un po’  Yevheniya rimase sveglia ad ascoltare suo padre suonare e cantare, accompagnando la musica con il lieve trillo della campanella nel suo sonaglino d’argento.

Quindi, piano piano, si addormentò.

***

New York, Carnagie Hall. Ottobre 1926

– Sono contenta di essere venuta, sai Pete? Avevo paura di annoiarmi e invece…-.

-Ti avevo detto che sarebbe stato interessante, Anastasia. Sono pur sempre le nostre origini! Forse non lo sai, ma il tuo bis-bis-bisnonno è venuto in America dall’Ucraina tanto tempo fa e…-.

Le luci nell’Isaac Stern Auditorium si abbassarono, segno che il concerto del Coro Nazionale Ucraino stava per ricominciare; Peter Wilhousky guardò di sottecchi la sorellina e le sorrise:

-Per stavolta ti sei risparmiata la storia della famiglia, ma sappi che la musica dell’Ucraina scorre anche nelle tue vene. È stato proprio ascoltando le canzoni popolari della nostra terra che ho scelto di studiare per diventare musicista e direttore di coro. Ero poco più grande di te, allora-.

-Lo so, lo so…- sorrise Anastasia, – E comunque ti ringrazio immensamente per avermi portata alla Carnagie con te. Sono sicura che un giorno anch’io suonerò qui-.

Peter non aveva alcun dubbio circa il talento musicale di sua sorella e, mentre la sala si faceva quasi completamente buia, si sentì molto fiero di essere lì, insieme a lei e a tante donne e uomini con cui senza dubbio condivideva le origini. Non appena aveva saputo che il tour mondiale del Coro Nazionale Ucraino avrebbe fatto tappa a New York, aveva preso i biglietti per sé e per Anastasia, convinto che quella musica avrebbe avuto un significato particolare anche per lei, che al momento impazziva per il “fascinating rhythm”  di George Gershwin.

Nel silenzio carico di tensione condivisa che sempre precede l’inizio di un concerto, il coro intonò la composizione intitolata “Shchedryk”, “Generoso”, un canto beneaugurante, che celebrava l’inizio del nuovo anno e aveva come protagonista una rondine. Peter sapeva che era stato scritto da Mykola Leontovych, uno dei più  grandi compositori e direttori di coro ucraini dell’epoca, e si rammaricò al pensiero che, appena qualche anno prima, fosse stato assassinato da un’agente sovietico, in quanto sostenitore dell’indipendenza dell’Ucraina dall’URSS.

Ascoltò rapito la melodia, un “ostinato” che gli ricordò i pomeriggi della sua infanzia trascorsi a casa dei nonni; la rondine annunciava la primavera e tutti i doni che avrebbe portato, ma, chissà perché, a Peter sembrava che a quella canzone mancasse qualcosa.

La adorava, certo, con quelle quattro note che si ripetevano all’infinito, crescevano e si intrecciavano alle voci, ma c’era qualcosa di misterioso e solenne, l’attesa di un segno, che sentiva nella melodia, ma non riusciva a trovare nelle parole.

“È un canto per il nuovo anno, la piccola rondine volò”.

Più tardi, quella sera, mentre percorreva la 7th Avenue insieme a sua sorella, Peter maturò l’idea che quella canzone potesse raccontare qualcosa di diverso rispetto a quanto aveva sentito. Cosa, di preciso, non avrebbe ancora saputo dirlo.

-Ti senti bene Pete?- chiese Anastasia, -Sei stranamente silenzioso da quando siamo usciti dalla Carnagie Hall…-.

-Ti chiedo scusa… è per quella melodia- si giustificò lui, -L’hanno suonata subito dopo l’intervallo. Credo di averla già sentita da piccolo, ma…-.

-Dici quella che sembrava una canzone di Natale? Con le campanelle e tutto il resto?- fece la bambina.

Peter si fermò sul marciapiede. Natale e campanelle.

-Come fai a dire che si trattava di una canzone di Natale?- chiese stupito.

-In effetti non lo so. Non capisco niente di ucraino, ma ho subito pensato alla sera della Vigilia e al trillo delle campane la mattina di Natale-; Anastasia guardò Peter, che la fissava a bocca aperta. -A un certo punto ho quasi creduto di sentirle, le campanelle. Tu no?-.

-Ora che mi ci fai pensare…- mormorò lui.

-Forse è meglio prendere un taxi per tornare a casa… c’è freddo stasera e tu non mi sembri particolarmente in forma-; Anastasia si sporse sul marciapiede per sbirciare nel traffico e Peter Wilhousky scoppiò a ridere. Il vento dell’autunno gli fece vorticare intorno una miriade di foglie secche, mentre saliva sul taxi che lo avrebbe riportato a casa.

Campanelle. Il loro suono riempiva l’aria gelata di quell’autunno che già preannunciava l’inverno.

E il Natale.

***

Chicago, Dicembre 1947

Minna Louise sistemò il colletto della camicetta per la milionesima volta quella mattina.

Ci teneva a essere in ordine, ma l’irrequietezza che le impediva di stare ferma non era dovuta alla preoccupazione per il suo aspetto.

Minna Louse Hohman si sentiva in colpa.

Amava profondamente la canzone “Carol of the bells”, non c’era alcun dubbio in proposito. E la cantava spesso perché, al contrario di altri brani natalizi, sentiva che la sua melodia era autentica, con una storia lunga e misteriosa da rispettare. Era così solenne e restava immediatamente impressa… Peter Wilhousky, che secondo quanto aveva letto aveva riadattato in inglese un vecchio canto ucraino, era riuscito a  scrivere un testo semplice e perfetto, che pian piano si caricava dell’attesa  tipica della notte della Vigilia,  per poi esplodere nel suono gioioso delle campane la mattina di Natale.

“Oh how they pound, raising the sound,
o’er hill and dale, telling their tale”

Si, ogni anno Minna Louise iniziava a canticchiare “Carol of the bells”  non appena l’aria cominciava a profumare di Natale.

E quando, appena qualche settimana prima, l’aveva intonata nello spogliatoio femminile della San Francis School,  Suor Maria Immacolata, l’insegnante di atletica,  l’aveva sentita per caso e le aveva detto che anche lei amava quella melodia, ma che le sarebbe piaciuta molto di più se le campane del canto avessero annunciato la nascita di Gesù.

Così Minna Louise, che di mestiere voleva fare la cantante ma ancora non lo aveva confidato a nessuno, aveva deciso di provare a scrivere un testo diverso per quelle note ripetute all’infinito, parole nuove, che celebrassero la nascita di un bambino destinato a salvare il mondo.

Dopotutto, se Peter Wilhousky aveva potuto utilizzare quell’antica melodia per la sua hit di Natale, perché non poteva farlo anche lei? Solo per gioco, beninteso. Anche perché Minna Louise sapeva che la sua famiglia non avrebbe mai potuto pagarle la scuola di musica, perciò doveva accontentarsi del coro della San Francis School, finché poteva. I suoi fratelli, quelli che erano sopravvissuti alla Guerra, lavoravano già tutti, così come le sue sorelle, quindi lei doveva ritenersi fortunata anche solo a potersi diplomare.

Per scrivere la nuova canzone, Minna Louise impiegò meno di tre giorni. Era stato bellissimo, perché l’aveva sentita risuonare nella testa come se ci fosse  stato qualcuno accanto a lei che gliela sussurrava all’orecchio. Sempre per gioco, l’aveva cantata a Suor Maria Immacolata e così era cominciato tutto quell’assurdo balletto, che l’aveva portata davanti a una porta rossa, ad aspettare, con indosso il tailleur di sua sorella maggiore Hetta che, tra l’altro, le stava  davvero enorme.

Le sue parole, infatti, erano piaciute così tanto a Suor Maria Immacolata, che le aveva fatte leggere a Suor Maria Lazzara, la quale le aveva passate a Suor Maria Adele, che infine ne aveva parlato con Padre Tommaso e Padre Tommaso con Padre Bernardo e Padre Bernardo… si, forse era lui che conosceva qualcuno alla All Saints Records.

“Ring, Christmas Bells, Sound far and near,
The birthday of Jesus is here”.

Così eccola lì, fuori dallo studio di registrazione, che aspettava di cantare la nuova versione di una canzone  che adorava fin da quando era bambina e di cui aveva depositato un testo nuovo di zecca la mattina precedente, nell’ufficio preposto, insieme a suo padre; forse lui, che per l’occasione l’aveva accompagnata indossando l’abito della domenica,  era ancor più stupefatto di sua figlia.

Alla All Saints Records, però, Minna Louise Hohman era voluta andare da sola. Si sentiva a disagio per tanti motivi,  ma si era anche fatta l’idea un po’ folle che quella sua canzone facesse parte di una musica più grande, a cui era stata chiamata a dare il suo contributo.

Un contributo per cui, forse, sarebbe stata ricordata… almeno così sperava.

***

Chicago, Vigilia di Natale 1990

Kevin McCallister aveva paura.

Sapeva che, se fosse tornato a casa, avrebbe dovuto affrontare quei furfanti da solo e di certo la sua bellissima casa sarebbe stata depredata e danneggiata irrimediabilmente dalla temibile banda del rubinetto.

Sospirò e rallentò il passo, stupito di essere arrivato fino alla Cattedrale.

La maestosa facciata era addobbata con piccole luci, le stesse che baluginavano sulle chiome degli alberi e delle siepi nel vialetto, e il Presepe, semplice e silente, sembrava come in attesa di animarsi. Dall’interno, Kevin sentì provenire un canto dolce e solenne e così, desideroso di un poco di conforto, decise di entrare. Attraversò la navata principale, osservando a bocca aperta gli archi a sesto acuto, slanciati e leggeri, e le statue dagli sguardi apparentemente severi, poi sedette ad ascoltare le prove del coro, che sia stavano svolgendo nella cappella poco lontano.

“Oh Holy Night!” cantavano le bambine e i bambini, suscitandogli una strana malinconia mista a rassegnazione. Avrebbe voluto sua madre lì, accanto a lui, invece era solo, completamente solo.

O forse…

Gli ci volle qualche minuto per vederlo, nella penombra poco lontano. Il signor Marley, intabarrato nel suo cappotto, si era appena alzato da un banco e si stava dirigendo a grandi passi verso di lui, con la solita terribile espressione arcigna stampata sul volto.

Kevin sapeva di dover scappare, perché suo fratello Buzz gli aveva raccontato che il loro anziano vicino di casa Marley aveva fatto a pezzi la sua famiglia con la stessa pala che usava per liberare il vialetto dalla neve; tuttavia non riuscì a muoversi e mentre l’uomo si avvicinava, sperò che il fatto di trovarsi dentro una chiesa gli avrebbe garantito la salvezza… almeno per  una manciata di minuti.

Marley lo fissò per qualche istante con i suoi occhi azzurri piccoli e scintillanti, poi il volto barbuto si contrasse in una strana smorfia che somigliava… ma si, somigliava a un sorriso!

-Buon Natale!- salutò.

Kevin era esterrefatto. La sua voce non era roca e spaventosa, ma profonda e simpatica! Che Buzz gli avesse mentito circa il vecchio signor Marley?

Bastarono pochi minuti perché l’uomo si dimostrasse per quello che era: un signore gentile, con una gran voglia di chiacchierare. Lo ascoltò  mentre gli raccontava di sentirsi solo, soprattutto nel periodo di Natale, perché purtroppo molti anni addietro aveva litigato con suo figlio e da allora tra i due, un po’ per orgoglio, un po’ per abitudine, si era come eretto un muro invalicabile. Il signor Marley si era recato ad assistere alle prove del coro di nascosto, per poter vedere e sentire cantare la sua nipotina, una graziosa bambina dai capelli rossi; gli piaceva ascoltare quei canti, ma allo stesso tempo gli provocava una fitta di tristezza al cuore.

Kevin rimase stupefatto, perché di certo non aveva niente in comune con il signor Marley, eppure aveva descritto esattamente il suo stato d’animo. Anche Kevin amava la sua famiglia, eppure aveva desiderato che sparisse per sempre… e così era accaduto, chissà come.

Dall’alto, o dal basso, dei suoi otto anni, consigliò al vecchio signor Marley di telefonare a suo figlio al più presto e di fare pace con lui.

In quel momento il coro intonò “Carol of the bells”.

“Herald the news, To old and young,
Tell it to all, In ev’ry tongue”.

Cosa aveva da perdere, dopotutto? Kevin avrebbe tanto voluto parlare con la sua famiglia, se solo avesse potuto! Il signor Marley sembrava ancora dubbioso, ma disse che avrebbe preso in considerazione il suggerimento e a Kevin quella piccola speranza bastò. Mentre le campane di Natale risuonavano nelle voci dei bambini, indossò cuffia e sciarpa, strinse la mano grande e calda del suo vicino di casa e uscì di corsa dalla Cattedrale, pronto a combattere.

Kevin McCallister avrebbe affrontato i furfanti che volevano compiere una rapina in casa sua: era rimasto solo, si, ma si sarebbe difeso ad ogni costo.

Nel suo cuore, le campane di Natale suonavano con un ritmo nuovo, quello del coraggio.

***

Cagliari, Vigilia di Capodanno 2020

-Quante volte lo hai visto quel film, Oksana? Non avevi promesso di fare un po’ di compiti stasera?-.

-Ma nonna, oggi è festa… e poi questo è il mio film di Natale preferito, lo sai!-.

Il pomeriggio prometteva pioggia e comunque, a causa di quell’odioso virus, nessuno dei bambini di tante etnie diverse che di solito si riuniva a giocare in Piazzetta Savoia sarebbe potuto uscire. Era vero, Oksana aveva promesso di fare i compiti, ma poi in tv era iniziato “Mamma ho perso l’aereo” e tutti i suoi piani di studentessa giudiziosa erano andati a farsi benedire.

-Oggi non è una vera festa per noi, lo sai no?- continuò nonna Olga, -Noi siamo ortodossi e festeggeremo nella notte tra il 13 e il 14 Gennaio-.

Oksana lo sapeva fin troppo bene, ma non si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo.

-Oksana Petrenko!- la rimproverò sua nonna, -Cosa significa quella smorfia?-.

La ragazzina si alzò dalla tavola, dove aveva sparso quaderni e libri di matematica, e corse ad abbracciare sua nonna.

-Ah, tu sei furba Oksana! Come una volpe… e come tuo padre!- rise quella, incapace di resistere al solletico.

-Scusami… e che sono stufa di stare a casa. Vorrei vedere i miei amici…- si lamentò lei, -… e poi questo è davvero uno dei miei film preferiti!-.

Nonna Olga scosse la testa in segno di disapprovazione: -Lo studio deve essere il primo pensiero. Sai quanto ci tengono i tuoi genitori-.

-Si si…- sospirò Oksana.

-E poi, se non hai voglia di studiare, potresti aiutarmi a preparare la zuppa borsch per la cena di stasera!-; la donna afferrò dal lavandino una barbabietola e la brandì verso Oksana come una spada: -Ci sono tutte le verdure da pelare!-.

Al pensiero di quella orrenda brodaglia fucsia, che presto avrebbe impestato tutto il quartiere della Marina con i suoi effluvi, Oksana rimpianse per un attimo che la sua famiglia avesse origini ucraine; per fortuna, sbirciando nel frigorifero, aveva visto anche i vareniki, i ravioli di patate e funghi che adorava.

-Tu, non fare quella faccia!- la rimproverò ancora la nonna, – La zuppa di verdure fa molto bene all’organismo!-.

Oksana scoppiò a ridere: -Forse al tuo organismo! E comunque… posso finire di vedere il film?- chiese, spalancando gli occhioni verdi e sfoderando un sorriso falsissimo.

Stavolta fu nonna Olga a ridere: – E va bene, va bene…- si arrese, – … ma mi spieghi perché la storia di quella peste di bambino ti piace così tanto?-.

-Dunque…- tergiversò Oksana presa un po’ alla sprovvista, -…innanzitutto mi fa ridere! E poi… non so, secondo me ci sono delle parti del film che hanno dentro il vero spirito del Natale-.

La nonna la guardò un po’ stranita.

-Prendi l’ultima scena, quella che hanno dato prima della pubblicità- spiegò la ragazzina,

-In chiesa Kevin capisce di voler bene alla sua famiglia e fa amicizia con quel signore un po’ burbero… e poi quei canti, l’ultimo in particolare… è così bello! Mi fa proprio pensare al Natale!-.

Nonna Olga lanciò la barbabietola nel lavandino, si asciugò le mani sul grembiule e raddrizzò la schiena; poi assunse un’espressione lieta e assorta allo stesso tempo e cominciò a cantare in una lingua incomprensibile per Oksana.

“Shchedryk shchedryk, shchedrivochka”

Per qualche istante la ragazzina pensò che sua nonna fosse impazzita, ma più il canto andava avanti, più somigliava a quello del film. La melodia si ripeteva sempre uguale e le parole, uno scioglilingua che suonava quasi come una formula magica, riempirono la cucina.

Quando smise di cantare, nonna Olga sembrava quasi commossa.

-Grazie, Oksana. Tu mi hai fatto ricordare- disse sorridendo, -Sai che la canzone che ti piace tanto viene dalla nostra terra?-.

-La canzone delle campane di Natale? Quando Kevin esce dalla chiesa e corre a casa?- chiese lei incredula.

Nonna Olga annuì: -La zuppa di barbabietola può aspettare- annunciò,  -Perché adesso voglio raccontarti la storia di una canzone. Parla di una rondinella, sai? E ora che mi ci fai pensare, è proprio la canzone giusta per la sera di Capodanno!-.

Fine

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