Scorre il fiume

Avevamo fatto un patto, io e Gaia.

Se volevo esserle amica, non dovevo chiamarla “signora Gaia”. -Ogni volta è come se mi stessi allontanando da te!- diceva, -Non c’entra niente la vecchiaia, eh. Vecchia son vecchia!-.

E giù a ridere.

Abitava al piano terra della stessa palazzina di cui io occupavo la mansarda, nel quartiere Castello. Le finestre si affacciavano su un vicolo stretto, pavimentato di ciottoli sopra i quali era impossibile camminare con i tacchi.

Eravamo diventate amiche così: tornavo da un concerto a notte fonda e ho preso una storta. Mi sono trascinata fino al portone imprecando e lei è comparsa nell’atrio in vestaglia e mi ha soccorsa. Mi ha fatto entrare a casa sua e, nonostante le mie proteste un po’ brille, mi ha piazzato una borsa del ghiaccio sulla caviglia e mi ha offerto una deliziosa tisana col miele.

Non ricordo molto altro; quella notte soffiava un vento gelido e ululante a Cagliari, ma nel salotto di Gaia mi sono sentita subito al sicuro. Mi sono svegliata l’indomani mattina, convinta di essere nel mio letto fino a che alle narici non è arrivato il profumo di uova e bacon.

-Ogni tanto me le concedo- confessò, -Alla faccia del buon dottor Gorasson!-.

Gaia, così immaginai dopo averla conosciuta un po’ meglio, aveva avuto una vita molto avventurosa. Negli anni ’70 aveva lavorato come interprete e lettrice di italiano in America e  in Inghilterra e a Londra si era fatta una famiglia. Non ne parlava spesso e sospettavo che a un certo punto fosse accaduta qualche tragedia che l’aveva riportata a Cagliari, sua città natale.

Perché Gaia, contrariamente a molte persone della sua età, non amava ricordare e condividere il passato. Piuttosto ascoltava il mio presente: le raccontavo le sciocchezze della mia sgangherata esistenza e lei reagiva come una lettrice che divorava le pagine di un libro zeppo di colpi di scena. E si che quella vita, a me, pareva immobile e stagnante. Mi dimenavo tra studio e lavoretti di ogni tipo, amicizie e amori improbabili, uno su tutti per un ragazzo che di me non aveva capito niente. Ci inseguivamo, ci avvicinavamo e poi ci detestavamo, delusi l’uno dall’altra.

Insomma, in fatto di sentimenti non ci capivo un tubo nemmeno io.

Gaia si divertiva molto quando pronunciavo queste “sentenze”, così le chiamava. Diceva che dovevo imparare a lasciar scorrere il fiume. Io però sentivo l’acqua alla gola.

Avevamo preso l’abitudine di passeggiare per le strade di Castello quasi ogni sera. Nella bella stagione ci fermavamo davanti alla cattedrale di Santa Maria e aspettavamo di scoprire quale sfumatura il tramonto avrebbe dipinto sulla facciata candida; d’inverno, invece, prendevamo il tè in una delle graziose caffetterie del quartiere, dalle cui finestre si poteva dominare la città. All’inizio temevo che quell’impegno avrebbe  finito col togliermi del tempo prezioso, che avrei dovuto dedicare a chissà cos’altro; ben presto, però, mi accorsi che l’appuntamento con Gaia arricchiva la mia giornata, perché mi faceva sentire più centrata sui piccoli obbiettivi quotidiani, che fossero fare la spesa dal fruttivendolo o finire di leggere una dispensa di glottologia.

-Ma tu cosa vuoi davvero?- mi chiese un giorno.

Non lo sapevo e lei lo aveva capito. Mi stavo nascondendo nella piccola mansarda in cui, mi svelò, anche lei aveva vissuto quando era più giovane.

Conobbi l’ineffabile dottor Gorasson alla festa di Carnevale del centro culturale di quartiere: gli occhi azzurri più belli che ancora oggi possa dire di aver incrociato sulla mia strada. Grandi e venati di verde, su zigomi alti e fieri, un uomo del nord Europa che era approdato, chissà come, al centro del Mediterraneo.

Quando lo vidi chiedere a Gaia di ballare, pensai che da ragazzo doveva essere stato desiderato da molte e molti. Lui, così alto e prestante, portava lei, piccola e morbida, con una grazia rara. Li trovai bellissimi, di un’eleganza antica e potente.

-Sto per andare in pensione- mi rivelò mentre assaporava un bicchierino di acquavite, -Gaia dice che non lo farò mai davvero, ma ormai ci siamo quasi-. La guardò da lontano, mentre distribuiva zeppole e frappe ai presenti, il vestito blu e una nuvola di capelli bianchi, su cui spiccavano gli orecchini di corallo. Li portava sempre.

Il dottor Gorasson sospirò.

Ricordo quegli anni come lenti e pieni. Sentivo che Gaia ci sarebbe sempre stata per me.

Mi avrebbe trascinata alle sue improbabili feste, d’estate ci saremmo godute vecchi film nei cinema all’aperto e avremmo fatto le nostre consuete passeggiate. Lei mi avrebbe ascoltata, mentre le mie parole si sarebbero poggiate sugli edifici del quartiere o si sarebbero involate dai Bastioni, promemoria e ricordo del nostro passaggio, della leggerezza con cui sapeva sciogliere i miei dubbi.

Col tempo mi sono convinta che  allora Gaia  stesse  creando la sua eredità per me. Quando morì, il dottor Gorasson mi rivelò di averla conosciuta in Inghilterra,  il giorno in cui aveva perso marito e figlia in un incidente stradale. Lui, un tirocinante di pronto soccorso poco più che ventenne, l’aveva amata subito, non gli  sarebbe importato della differenza d’età.

Gaia però decise di scappare via. Tornò in Sardegna, dove il suo viaggio era iniziato.

-Ho resistito un anno lontano da lei- mi confessò il dottore. Dopo il funerale di Gaia, l’avevo invitato a salire a casa; avevamo bisogno di bere qualcosa e sapevamo di poter trovare un briciolo di consolazione l’una nell’altro.

-Siamo stati amanti, in questa mansarda- sussurrò guardandosi intorno,  -Gaia disse che non avrebbe mai potuto sposarmi e, d’altra parte, nemmeno avrebbe potuto evitare di amarmi. Di quell’amore terribile e disperato-.

Pianse in silenzio e io mi sentii una stupida.

Sono partita per l’Inghilterra quasi un anno fa. Faccio lo stesso lavoro di Gaia. Oggi il dottor Gorasson mi ha scritto che la nostra mansarda è stata affittata a una nuova, incasinatissima studentessa universitaria.

Qualcuno, inaspettatamente, mi ha seguita fin qui. E io lascio scorrere il fiume.

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