Un piccolo posto sicuro

Lo avevano costruito giorno dopo giorno, senza accorgersene.

Stava in una vecchia palazzina del quartiere Villanova, a Cagliari, uno dei pochi immobili  quasi del tutto fatiscenti che ancora non erano stati venduti, ristrutturati e trasformati in deliziosi appartamenti destinati a nuovi inizi.

La Storia, nel loro piccolo posto sicuro, era impolverata, stratificata, ma ancora evidente: giorno dopo giorno lottava per non sfaldarsi insieme agli affreschi dell’atrio, levigata e incurvata verso se stessa, come i gradini di marmo bianco che Istevene e Celine salivano e scendevano nel tentativo di costruire le loro vite, fatte di poche certezze e una miriade di domande.

Per alcuni mesi avevano vissuto nella palazzina percependo a mala pena la presenza l’una dell’altro. Era stato il signor Rais a metterli in contatto, quando si era presentato il problema dell’impianto elettrico e della spesa esorbitante da affrontare, e così avevano iniziato a scambiarsi dei messaggi, scherzando sul fatto che, pur abitando lo stesso antiquato mondo senza ascensore, se si fossero incontrati “fuori” non si sarebbero riconosciuti.

Quando finalmente si erano incrociati sulle scale, in una giornata flagellata da maestrale e nubifragi intermittenti, con scarpe e vestiti inzaccherati e capelli appiccicati alla fronte, erano scoppiati a ridere e basta. Nemmeno una sillaba. Avrebbero parlato dopo. E a lungo.

La maggior parte delle volte, quali che fossero le condizioni metereologiche, si incontravano sulla terrazza; nessun altro si avventurava fin lassù, un po’ per le scale troppo ripide, un po’ perché il pavimento-tetto scricchiolava a ogni passo. “Ci franerete in testa, prima o poi!” li ammonivano i signori Marras del primo piano, mentre il signor Rais, al secondo, si dichiarava fatalista: se era scritto che la sua vita finisse sotto un cumulo di macerie, non avrebbe potuto fare niente per evitarlo.

Terzo e quarto piano erano occupati rispettivamente da Istevene e Celine, quasi trentenni al primo impiego che consentiva loro di pagarsi un affitto, conveniente solo per le pessime condizioni dell’immobile; i lavori di entrambi, ovviamente, erano a tempo determinato, ma della precarietà i due non parlavano mai, quasi fosse una condizione normale, un pegno da pagare in attesa di qualcos’altro. Il mestiere per cui avevano studiato, magari, aspirazioni e sogni che tenevano insieme il loro essere, in perenne tensione, pronto a quello slancio per cui stavano accumulando ogni energia possibile.

Intanto, però, vivevano.

Nel tempo che trascorrevano insieme non c’era spazio per la quotidianità, per quell’esistenza che era reale e tuttavia provvisoria. C’erano solo loro, a raccontarsi, affacciati sul mondo dalla loro palazzina decadente: segnata da vite passate, nascosta in un vicolo, ma con una visuale privilegiata sulla bellezza della piazza sottostante, sui concerti nel Chiostro di San Domenico, sugli incontri letterari all’ombra delle piante sempreverdi, sui riflessi delle luminarie di Natale nei piccoli balconi in ferro battuto. Da lassù, Istevene e Celine potevano godere del meraviglioso e trovare riparo dal “vero”.

La bellezza di Celine, le cui origini marocchine rilucevano sulla pelle e sui capelli, stava nella capacità di intessere storie. Che fosse un episodio della sua infanzia, il racconto dell’amore tenero e rivoluzionario dei suoi nonni a Rabat o la trama di un libro che aveva letto, Celine sapeva narrare, mescolando sempre qualcosa di intimo e segreto alle parole. Una speranza, un rimpianto, un’idea.

Istevene si divertiva a indovinare quel tocco, ogni volta. Sapeva ascoltare e possedeva il dono della pazienza, ereditato da sua madre insieme ai grandi occhi verdi e indagatori. Non si affrettava a condividere, ma attendeva il momento giusto per esprimere pensieri che difficilmente qualcuno avrebbe potuto scalfire. Era testardo, duro a tratti, ma si pentiva costantemente delle sue asperità.

Così erano Celine e Istevene sulla terrazza, nel piccolo luogo sicuro in cui ora dopo ora, parola dopo parola, la loro maschera aveva finito per sbriciolarsi. Erano a casa, su uno sgangherato divano ereditato dai precedenti inquilini dell’ultimo piano, con in bocca il sapore del vino, di qualche sigaretta che li faceva sentire ancora liceali e del gelato ai fichi neri di Chia.

Lassù lei gli aveva raccontato che, nonostante fosse nata in un piccolo paese della Gallura, certi sguardi erano ancora capaci di farla sentire un’estranea. Lassù lui le aveva rivelato che, dopo gli studi, era rimasto in Sardegna per poter stare vicino a un fratello minore in difficoltà.

Quando il signor Rais fece loro la fatidica domanda, “State insieme?”, Istevene e Celine negarono convintamente. Stavano tornando dalla spesa al mercatino rionale e avevano incrociato nell’atrio quel pensionato dal volto bonario, con lo sguardo penetrante che sapeva vedere lontano. In quei mesi avevano avuto delle storie, Istevene e Celine, anche se finite male, e quindi no, no che non stavano insieme. Avevano salutato il signor Rais ed erano saliti per le scale piano, pianissimo. Sulla porta di Istevene si erano baciati. A casa di Celine avevano fatto l’amore.

Non ebbero il tempo di chiedersi cosa avrebbe significato per loro.

Il giorno successivo la vecchia palazzina venne evacuata dai Vigili del Fuoco, allertati quella stessa notte dai signori Marras: l’immobile rischiava di crollare, di sbriciolarsi su di loro da un momento all’altro.

Il “vero”, crudele e ineluttabile, alla fine aveva scovato anche Istevene e Celine.

Si ritrovarono, increduli, nella piazza che tante volte avevano osservato dalla terrazza. Alle  loro spalle stavano scatoloni e bauli che sarebbero finiti chissà dove, mentre nella loro testa risuonava una sola domanda: si sarebbero riconosciuti lì fuori?

Si abbracciarono a lungo, in quella mattina d’inverno tersa e gelida, mentre su una panchina poco lontano il signor Rais pensò di averci visto giusto fin da subito.

Sperò che Istevene e Celine, col tempo, riuscissero a capire di aver costruito il loro piccolo posto sicuro l’uno nell’altra e non tra le crepe di quella fatiscente palazzina di Villanova sulle cui pareti si era appena poggiata, lievemente, l’ultima storia.

3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Luca ha detto:

    Belissima… 🙂 Buon pomeriggio! 😉

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    1. Lorella_Co ha detto:

      Ti ringrazio Luca! Mi fa piacere ti sia piaciuta! Buona serata! ☺️

      Piace a 1 persona

      1. Luca ha detto:

        Grazie Lorella, buona serata anche a te! 🙂

        Piace a 1 persona

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